19/11/2010
Un manifesto elettorale per il referendum del 9 gennaio 2011 in Sud Sudan.
Dal nostro inviato a Juba, Sud Sudan -
Il referendum. Non si parla d’altro, in Sud Sudan. A Juba – la futura capitale – come a Yrol, ad Awerial come a Rumbek. Sono le città che abbiamo attraversato in questo viaggio verso il cuore del Sudan meridionale, lungo una larga e sconnessa pista di terra battuta.
Il 9 gennaio, il giorno della scelta. Ne parlano i politici e la Chiesa, i vecchi ex guerriglieri dell’Spla (Esercito di liberazione del popolo sudanese) e gli allevatori dinka quando si accampano la sera insieme alle proprie mandrie nei cattle camp (letteralmente “campo-bestiame”).
Ne parlano le donne al pozzo mentre raccolgono l’acqua e i malati nelle corsie dei poveri ospedali sudanesi.
Il referendum è una data storica, per questo immenso Paese, ma anche per l’intero continente africano: i circa 8 milioni di abitanti del Sud Sudan – ma gli elettori, adulti, sono ovviamente meno della metà – devono decidere se rimanere uniti al Nord o se attuare la secessione. In Africa c’è un solo precedente: l’Eritrea nel 1993 votò allo stesso modo la separazione dall’Etiopia, che la mappa dei colonialisti aveva disegnato come un Paese solo.
Una seconda consultazione – che per ora è fissata per lo stesso 9 gennaio – riguarderà soltanto la popolazione della regione di Abyei, che dovrà a sua volta decidere se rimanere col Nord o col Sud.
Il 15 novembre è cominciata la campagna di registrazione al voto: in un Paese che ha avuto solo guerra per 22 anni (fino al 2005), dove non esistono censimenti e certificati elettorali, la registrazione è un momento fondamentale e delicato: solo chi si iscrive voterà, e occorrerà almeno il 60 per cento dei “sì” alla secessione perché nasca il nuovo Stato, che avrà come capitale Juba.
Venti di guerra? No, o meglio, forse no.
La partita che si gioca in Sudan è importante per la comunità internazionale, sia sul piano geopolitico (il Paese era stato messo da Bush fra gli “Stati-canaglia”, ed è per metà arabo-islamizzato – il Nord – mentre l’altra metà è abitato da etnie africane ed è cristiano-animista) sia sul piano delle risorse: è ricchissimo di giacimenti petroliferi (specie l’area di Abyei).
I Paesi europei, ma soprattutto gli Stati Uniti vogliono fortemente che il referendum abbia luogo, e che sia libero e trasparente. Il che significa volere la secessione del Sud, dato che le stime danno una probabile vittoria del “sì” alla separazione al 90 per cento.
L’oro nero è il primo dei problemi: la gran parte delle riserve ricade nel territorio del Sud, ma nella fascia di confine, talvolta in aree contese; la pipe line che lo esporta attraversa il Nord e arriva al mare a Port Sudan. Ma non solo: l’acqua è al Sud, la parte fertile del Paese è al Sud, le foreste sono al Sud. Il Nord ha le infrastrutture e le strade. E ha in mano l’economia.
Dopo il voto sono previsti sei mesi di transizione. Solo nel luglio prossimo, in caso di vittoria della secessione, verrebbe proclamata la nascita del nuovo Stato, il 57° dell’Africa.
Ma i giochi si faranno ben prima: già in queste settimane si moltiplicano le voci di ingenti trasferimenti di truppe e mezzi militari ai confini, sia da parte del Governo di Khartoum che da parte dell’Spla.
Se malauguratamente dovesse ricominciare la guerra, le parti si faranno trovare pronte. Se tutto si risolverà col dialogo e la trattativa, entrambe si siederanno al tavolo mostrando i muscoli. Una cosa è certa: la gente che abbiamo incontrato in questi giorni, ovunque, una nuova guerra non la vuole. Ne ha già conosciuta troppa.
Luciano Scalettari