09/05/2012
Il premier iracheno Al Maliki (a sinistra) con il vicepremier e ministro per il Petrolio Al Shahristani (foto Reuters).
Alla fine del 2011, al momento del ritiro delle truppe Usa, molti pensavano che l'Iraq sarebbe stato travolto da un'ondata di attentati e violenze. Il sangue è corso, in effetti, ma non molto più di prima. A esplodere, invece, è stata la situazione politica. A poche ore dalla partenza degli americani, infatti, il premier Nuri al Maliki, sciita, prima ha fatto arrestare il vice presidente Tareq al Hashemi, sunnita, accusandolo di terrorismo, e poi ha chiesto al Parlamento un voto per costringere alle dimissioni Saleh al Mutlak, il vice premier, un altro sunnita.
La frattura non si è mai ricomposta. Al Hashemi, accusato di aver partecipato all'organizzazione di almeno 150 attentati, non si è presentato al processo cominciato il 3 maggio, si è rifugiato in Turchia e da ieri, su richiesta del Governo iracheno, è ufficialmente ricercato dall'Interpol. Inutile sottolineare che dal dicembre 2011 le autobomba si sono succedute, in un Paese che peraltro non ha mai visto una reale cessazione degli attentati a sfondo etnico e settario.
La "crisi giudiziaria", però, non è che l'ultima, forse più grave evoluzione di un gran pasticcio politico partito l'indomani delle elezioni del marzo 2010, quelle che decretarono la vittoria a sorpresa di Iyad Allawi. Nessun partito era in grado, però, di formare un Governo e per quasi 9 mesi l'Iraq restò immerso nel limbo di un governo provvisorio. Poi, dopo una complessa mediazione del presidente siriano Assad tra Usa ed Iran, fu dato il via a un secondo Governo di Nuri al Maliki.
Questi dovette, naturalmente, pagare un prezzo alle altre formazioni e agli altri leader. Prezzo che fu formalizzato nei cosiddetti Accordi di Erbil, dal nome della città del Kurdistan dove fu siglato: una spartizione delle influenze e dei poteri così particolareggiata e complessa da non potere in alcun modo funzionare. E infatti ancora oggi, a più di due anni dall'accordo, Al Maliki e i suoi accusano gli altri di ricatto, mentre tutti gli altri accusano lui e i suoi di tradimento.
Ancora pochi giorni fa, il 28 aprile, i leader insoddisfatti si sono ritrovati nella stessa Erbil per rinnovare ad Al Maliki l'invito a rispettare i patti. C'erano il curdo Jalal Talabani, che è pur sempre il presidente dell'Iraq, il capo dell'ala sciita radicale Moqtada al Sadr, il presidente della regione autonoma del Kurdistan Massud Barzani, il leader del partito Iraqia, sostenuto dai sunniti, Iyad Allawi e lo speaker del Parlamento, il sunnita Osama al Nujaifi. Ma la risposta di Al Maliki è arrivata con il mandato internazionale d'arresto per al Hashemi.
Al Maliki si fa forte dell'appoggio degli Usa che, con l'Iran alle porte e il Medio Oriente in piena crisi, non sono certo disposti a smantellare quel poco ch'è stato finora costruito in Iraq. I sunniti iracheni, che sono minoranza, possono fare poco per rivendicare i propri diritti, veri o presunti.
Il vero rischio, per il Governo di Baghdad, potrebbe arrivare dopo l'estate, quando il Kurdistan, già largamente autonomo, potrebbe decidere di scegliere l'indipendenza con il referendum già convocato. In questi mesi potrebbe succedere di tutto, dalla caduta del regime di Assad in Siria (detestato dai curdi ma non dal Governo di Baghdad) a un attacco israeliano contro le installazioni nucleari dell'Iran. Se il referendum si terrà regolarmente, toccherà agli Usa, da sempre protettori del Kurdistan, disinnescare anche questa mina.