24/01/2012
Una scena del pezzo teatrale di Romeo Castellucci.
Che dire, dunque, dello spettacolo? Innanzitutto ci vuole il rispetto della fede per i “piccoli”, quelli che – e girando per il web non sono pochi – hanno una fede essenziale, semplice, avulsa dal discettare filosoficamente se quel gesto significa questo o quello. E che rimangono scandalizzati, offesi – ci mancherebbe! – che del Cristianesimo ci si possa prendere, come accade purtroppo sovente, tranquillamente dileggio, magari spesso in cattiva fede, mentre il virus del “politicamente corretto” fa sì che gli artisti evitino accuratamente di lanciare le stesse provocazioni agli aderenti ad altre religioni, i musulmani in primis, per non ricavarne una garantita quanto scomodissima fatwa a vita.
Di qui, però, a dire che è sicuramente bestemmia, soprattutto alla luce di quanto ha detto e ripetuto più volte il regista, ne passa. Se lo scandalo, per il nostro Catechismo, diventa una colpa grave quando «chi lo provoca deliberatamente spinge altri a peccare» (n. 2326), sembra, fino a prova contraria, che non sia stata questa l’intenzione del regista: niente blasfemia, niente apologia della dissacrazione. Castellucci, dopo aver confessato in un’intervista al Festival di Avignone (luglio 2011) di aver vissuto, sfogliando un libro, una qualche sua personale “chiamata” incrociando lo sguardo col Cristo di Antonello da Messina, ha dichiarato nella lettera pubblicata sul sito del teatro Parenti riguardo alla scena del lancio delle granate: «Un gesto violento vuole significare la fragilità umana e il bisogno di amore».
Probabilmente, è questa la nostra idea, la libertà di espressione artistica, oltre che costituzionalmente garantita (art. 21, con il solo limite del “buon costume”), può diventare per lo stesso Cristianesimo – soprattutto alla vigilia dell’Anno della Fede indetto dal Santo Padre (11 ottobre 2012 – 24 novembre 2013) – un’occasione per provocare le coscienze addormentate della nostra epoca, un’epoca dalle “passioni tristi”, così ben descritta da Miguel Benasayag e Gérard Schmit nel loro omonimo libro (L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004). Forse che Gesù era esente dalla provocazione e dallo sferzare per parlare alla sua gente?
Romeo Castellucci (Foto Corbis).
Sarà la storia, come sempre, a emettere la sua sentenza definitiva e senza appello sullo spettacolo, così come ha fatto con infinite altre opere ritenute “blasfeme” nel loro tempo e poi, magari, rivalutate o lette diversamente dalle generazioni successive. È il caso, ad esempio, del Caravaggio, al secolo Michelangelo Merisi, e della sua Madonna dei palafrenieri, tela conservata oggi alla Galleria Borghese di Roma. L’opera, destinata nel 1605 all’altare della chiesa di Sant’Anna in Vaticano, venne subito ritirata perché ritenuta blasfema, oltre che eretica. Gesù infatti – ritratto “scandalosamente” nudo in età non più puerile (a circa sei anni) e tenuto da una Madonna troppo “scollata”, la cui immagine oltretutto era stata ispirata all’artista da una nota prostituta romana – nella tela posava il suo piede su quello della Madonna nell’atto di schiacciare la testa al serpente, circostanza che sembrava favorire teologicamente le tesi protestanti – in un tempo ancora troppo vicino alla rottura di Lutero con Roma – sul ruolo della Grazia da attribuirsi, per i luterani, esclusivamente a Gesù e, per i cattolici, invece principalmente a Maria. Mutatis mutandis è poi forse il caso, per venire a tempi più recenti, del lungometraggio L’age d’or (1931) di Luis Buñuel e Salvador Dalì, uno dei manifesti di quel Surrealismo dissacratore di ogni autorità costituita, fra cui la gerarchia ecclesiastica, incarnazione “cult” dello spirito antiborghese e anticlericale del periodo tra le due guerre. Il film venne ritenuto gravemente offensivo dei valori cristiani e ritirato dalle sale per avere fra l’altro rappresentato il Duca di Blangis, peccatore incallito, nelle sembianze di Gesù. Ebbene quegli stessi autori, Buñuel e Dalì, pur in una dimensione oniricamente dissacratrice della religione, nella loro produzione artistica hanno riservato un grande spazio alla tematica religiosa e rappresentano oggi, comunque la si veda, una tappa fondamentale per capire lo spirito religioso dell’epoca. Discorsi analoghi potrebbero farsi per Jesus Crist Superstar, film certamente non “ortodosso” e forse neanche espressione autentica del Vangelo, ma opera neppure da stigmatizzare senza appello, se ancor oggi costituisce per qualcuno un primo “eterodosso” approdo alla conoscenza del Volto del Salvatore. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Un’ultima considerazione, forse consolatoria ma cercando di essere il meno possibile ingenui. Come anche l’ultima edizione della Biennale di Venezia ha mostrato, il soggetto religioso, alla faccia della secolarizzazione, è tra quelli che più ispirano l’arte contemporanea. Come a dire che il repertorio simbolico cristiano, pur interpretato con estrema (anarchica?) libertà dagli artisti, non viene (ancora?) messo in soffitta. Anche se purtroppo – è quasi retorico dirlo – raramente produce quel “bello autentico” che, come ha detto il Papa agli artisti incontrandoli nella Cappella Sistina il 21 novembre 2009, «porta a un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello».
Stefano Stimamiglio
Paolo Perazzolo, Alfredo Tradigo, Stefano Stimamiglio