26/11/2012
Alessandro Sallusti.
La storia del disegno di legge sulla diffamazione in discussione in Senato, meglio nota come legge Salva
Sallusti, ha davvero dell’incredibile ed è forse il colpo di coda più
avvelenato della casta che siede tra i banchi del Parlamento. La Federazione
degli editori e quella dei giornalisti, per una delle poche volte unite in un
appello congiunto, la definiscono
"una pessima legge che introduce norme assurde”.
Una legge che sembra carica di rancore, fatta da un
Parlamento di pasticcioni, che si propone di salvare i giornalisti dal carcere
(l’Italia è l’unico Paese al mondo, a parte i regimi tirannici e liberticidi a
prevedere questa barbarie) e che si ritrova col salvare solo i direttori,
peraltro mettendoli contro i giornalisti, che invece in galera ci vanno eccome.
Ma come è possibile che si sia arrivati a tutto questo? Basta
ricostruire quel che è accaduto in Parlamento.
Come è noto, tutto nasce per salvare dal carcere il
direttore del “Giornale”, Alessandro Sallusti, condannato a 14 mesi per un
articolo scritto da un suo giornalista mascherato dietro uno pseudonimo al tempo in cui
era direttore di Libero. Il proposito è sacrosanto. Come detto, solo nei Paesi
dove è abolita la libertà di pensiero i giornalisti vanno in galera (quando non
vengono ammazzati). In Italia ci sono solo due casi nella storia. Uno è Giovannino
Guareschi (che aveva insistito nell’accusare De Gasperi), l’altro è Lino
Jannuzzi (graziato dal presidente della Repubblica).
E così il Parlamento cerca di porre rimedio.
Il tempo stringe, perché ci sono
poche settimane per salvare il direttore del Giornale dalla detenzione. Anche i mass media si schierano contro il carcere. “Spero
che all’Italia venga risparmiata una simile ignominia”, commenta tra l’altro il
direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli.
I senatori Gasparri e Chiti firmano una proposta di legge molto semplice,
composta da tre articoli con una relazione introduttiva che recita più o meno
così: “Sallusti è stato condannato. Siccome la Corte europea di Strasburgo
prescrive che il carcere per i giornalisti non si deve mai applicare, bisogna
eliminare il carcere per tutti i giornalisti”.
Ma si sa, i parlamentari
vogliono partecipare all'elaborazione delle proposte di legge. I tre articoli si tirano dietro in commissione trecento
emendamenti e il progetto si incarta in un mare di lacci, lacciuoli,
precisazioni, diatribe giuridiche, commi e cavilli. I tre articoli
diventano un papello incoerente e confuso. E a un certo punto ricompare
persino il carcere. Lo propone l’ineffabile Lega
Nord. In base a non si sa quale finalità, ecco che torna la galera per
diffamazione aggravata, punibile fino a un anno di reclusione. Oltre
alla Lega,
aderiscono all’emendamento anche il Pdl e l’Api di Rutelli non si
capisce in
base a quali misteriose ragioni. A quel punto se il papello venisse
approvato Sallusti andrebbe inevitabilmente in
galera. E così i parlamentari si mettono di nuovo al lavoro, come degli
apprendisti stregoni del diritto, per evitare quest'eventualità. La
legge assomiglia sempre più a uno di quei mobili venuti storti che i
falegnami di second'ordine cercano di raddrizzare con chiodi e colpi di
martello (da cui il detto "roba da chiodi").
Spunta infatti un altro emendamento: prevede la multa
e non il carcere per il direttore che concorre nel reato di diffamazione aggravata.
E il giornalista? Se lo dimenticano. Per lui il carcere rimane. Con la nuova
legge tutte le volte che un giornalista diffama qualcuno gravemente, si vede
comminata la pena alternativa della multa o della reclusione (decide il giudice
a seconda della gravità del fatto). Invece il direttore responsabile ha
soltanto una multa e mai la reclusione. Anche se concorre col giornalista nel
reato. Persino se lo scrive a quattro mani con lui. Paga sempre una multa, non
andrà mai in carcere. Snaturando la natura del direttore responsabile, che
diventa meno responsabile del suo giornalista.
Tutto questo in deroga
all’articolo 3 della Costituzione ("tutti i cittadini sono eguali
davanti alla legge) e dell’articolo 110 del Codice penale (“tutti
i concorrenti dello stesso reato sono soggetti alla stessa pena”).
Insomma, si
parte per togliere il carcere ai giornalisti e si arriva al traguardo
levando
il carcere solo ai direttori. Giungendo al caso limite di un direttore
che ordina un
pezzo a un suo giornalista, viene condannato insieme a lui per omesso
controllo, riceve la stessa pena perché magari lo ha addirittura scritto
a quatro mani insieme con lui e concorre al reato, ma la scampa con una
multa. A differenza del suo redattore che invece finisce in manette,
come uno spacciatore o un ladro d'appartamento.
Molti parlamentari sostengono che l’eventualità che un
giornalista vada in carcere con questa legge è molto, molto remota. “E invece
non è vero”, spiega l’avvocato Caterina Malavenda, docente di diritto
dell’informazione e tra i massimi esperti della materia. “E’ un’eventualità
possibile se si realizza la diffamazione aggravata a mezzo stampa attraverso l’attribuzione
di un fatto determinato (per diffamare gravemente, recita la legge, serve una circostanza
specifica narrata nell'articolo). Se si viene querelati con questa contestazione, si rischia o la
multa o la reclusione fino a un anno (decide sempre il giudice) con sospensione
condizionale della pena. La prima volta però. Se se ne commette un’altra sei
mesi dopo, la sospensione condizionale viene revocata e le due pene
si cumulano. Quando si sono superati i due anni di
cumulo delle pene, anche a distanza di anni l'una dall'altra, bisogna espiarli. Fino a tre anni si va in affidamento in
prova, oltre i tre anni si va in carcere".
Per un giornalista la diffamazione è un
rischio "professionale", è sempre possibile (pensiamo ai cronisti giudiziari, ma non solo). In trent’anni di carriera – oppure
se si scrive un libro molto delicato giudiziariamente - può accadere benissimo di accumulare più di
una condanna e di superare i due anni. E quindi di finire in carcere.
Ecco perché editori
e giornalisti si augurano che questa legge assurda, fatta male e liberticida
venga cambiata in corsa al Senato. Non si tratta di spirito di consorteria, ma
di libertà di stampa. Quella che distingue tra una democrazia e un regime liberticida e dispotico.