23/09/2012
Il Cairo, capitale dello stato egiziano. (Thinkstock)
Padre Giovanni Esti, classe 1963, è un padre comboniano che dal 2007 vive a Il Cairo e gestisce il Centro Culturale Markaz Comboni, che attraverso la diffusione della stampa e l’arte ha come obbiettivo quello di promuovere giustizia, pace e integrità del creato. Lui che ha vissuto i giorni della rivoluzione di piazza Tahrir, a pochi centinaia di metri dalla sua casa, oggi continua a respirare quell’aria di cambiamento in un Egitto che fatica a trovare un nuovo volto.
Incontriamo padre Esti a margine di una delle sessioni del X Congresso Internazionale di Studi Copti, che si sta svolgendo a Roma. Giorni in cui continuano ancora le polemiche e gli scontri, sulla scia del film anti-islam, e quando gli viene chiesto qual è la situazione attuale e se ci sono state delle ripercussioni sui cristiani a Il Cairo, lui sorride dicendo: “Certo gli scontri sono avvenuti, ma ovviamente sono stati ingigantiti dai media e non ci sono state forti ripercussioni sui cristiani. Penso che apparentemente la rivoluzione araba non ha cambiato nulla, ma è la percezione delle persone che è mutata, cioè che si può cambiare. Infatti ora protestano su tutto e quindi penso che la sfida di questi Paesi è passare da una fase distruttiva ad una costruttiva. Sanno cosa hanno lasciato, ma non dove vanno. Gli stessi giovani non riescono ad immaginare un mondo diverso da quello che conoscono, perché un paese che è stato privato di creatività per tanti anni, ha un basso pensiero critico e ora la vera necessità è quella di trovare nuove guide”.
Padre Giovanni Esti.
Ma di fatto ci sono stati scontri.
“Certo ma ricordiamo sempre che sono le frange più estreme. Sicuramente il presidente Morsi non è apparso molto bene perché ha temporeggiato prima di prendere una posizione, ma queste fazioni non sono rappresentative dei Fratelli Musulmani. Diciamo che anche i media occidentali hanno fatto la loro parte e si sono ingigantite alcune dinamiche, soprattutto in occasione dell’11 settembre. Non dimentichiamo che l’Egitto è un paese strategico, ha bisogno dell’Occidente, quanto l’occidente dell’Egitto”.
Quali sono stati gli effetti di questa rivoluzione sui cristiani in queste terre, come vivete ora?
“Positivi, perché prima, sotto Mubarak, eravamo prigionieri di un mondo conosciuto, ma bloccato, ora invece si sono aperte tante opportunità. Sotto Mubarak c’era la polizia segreta che ci controllava, oggi no e sono aumentati anche i visti per chi vuole andare all’estero. Capisco la paura legittima ma non necessaria per il Paese quando sono saliti i Fratelli Musulmani. Ricordo che i Fratelli Musulmani sono un movimento non violento, che ha sempre puntato sulla diplomazia. Il problema sono le aeree più faziose, come i Salafiti. E ricordo che Morsi è stato eletto democraticamente, anche se penso che la sua vita si complicherà molto quando il Parlamento sarà formato, perché si dovrà confrontare con una maggioranza che è divisa al suo interno. Certo gli episodi di aggressioni continuano, anche nei confronti dei cristiani, ma la maggioranza di essi è legata a questioni di terra, quindi si tratta di atti sociali e non religiosi. Dobbiamo pensare che questo Paese è ancora, soprattutto nell’Alto Egitto, rurale, dove vigono leggi patriarcali”.
La sua è senza dubbio una posizione privilegiata, come sono i suoi rapporti con le comunità cristiane?
“I mie rapporti sono buoni con tutti, perché non utilizzo la religione, ma l’arte e la cultura e nel momento in cui si organizza una mostra partecipano tutti, ortodossi, protestanti, cattolici. Quando ci si trova a questi livelli gli scudi si abbassano. Il mio ruolo è quello di far incontrare le persone di buona volontà, costruttive, capaci di dialogo, attraverso linguaggi universali come l’arte, anche se il problema è che è ancora una questione di nicchia e unilaterale. Importante per me è cercare senza paternalismi e verità in tasca, un dialogo possibile, perché il problema dell’Egitto è quello di unire diverse identità che si incontrano e dialogano. In questa realtà bisogna convivere e lavorare”.
Ma la Chiesa Copta come sta reagendo a questa rivoluzione?
“Penso che la Chiesa deve uscire dalla logica della paura e lasciare che i propri membri si possano coinvolgere nella politica del paese. Uscire dagli schemi, dall’immagine di persecuzione, è la sfida reale ed ardua che si chiede alla Chiesa d’Egitto. Purtroppo i copti non hanno un piano politico preciso e negoziano solo a porte chiuse, ovviamente questo li spinge a ghettizzarsi ancora di più. Bisogna ammettere che ci sono opportunità storiche di cambiamento che questo paese ha ricevuto, e sono convinto che chi non beneficerà in questo momento di passaggio resterà tagliato fuori da opportunità e non minacce, che la storia della salvezza ci ha donato”.
Il prossimo 2 dicembre ci saranno le elezioni per il successore di Papa Shenouda III, guida dei copti ortodossi. Qual è il clima che si respira?
“C’è un forte dibattito interno e vedremo come andrà a finire. È un momento di grande fioritura, i monasteri sono pieni di giovani, così come le chiese”.
Benedetto XVI nel suo ultimo viaggio in Libano ha esortato i cristiani a non abbandonare le terre mediorientali.
“L’esortazione del Papa è giusta, ma ricordiamoci che i cristiani convivono da secoli con i musulmani in queste terre, condividono la stessa cultura e non sono così poveri come appaiono. Per cui credo ci sia un elemento di verità che si lega con un elemento sociologico e se molti copti vanno all’estero non è necessariamente perché perseguitati, ma per motivi economici. Ripeto, la vera sfida della Chiesa Copta è quella di essere attiva in questo cambiamento promuovendo valori di democrazia”.
Francesca Baldini