Londra 2012, giochi da ragazze

Federica Pellegrini, Valentina Vezzali, Josefa Idem... che l’azzurro virasse al rosa s’era capito fin dalla bandiera. Ma Londra 2012 avrà molto di femminile anche altrove.

Alex Schwazer: sulla strada

23/07/2012
Alex Schwazer si allena nelle campagne lombarde: 10 mila km l’anno nelle gambe. (foto Ansa)
Alex Schwazer si allena nelle campagne lombarde: 10 mila km l’anno nelle gambe. (foto Ansa)

Parola d’ordine: clausura. Lontano dalle tentazioni, perché la marcia non perdona. Se non le dai l’anima, ti molla. Alex Schwazer lo sapeva da quando, ragazzo, scalava camminando con quell’andatura ondeggiante i vertici dell’atletica mondiale. Ma solo dopo Pechino 2008 ha imparato la distanza tra polvere e altari. Finché si va dalla polvere agli altari, si sale in orizzontale, camminando, con fatica ma crescendo; il percorso inverso invece è verticale come un filo a piombo: dall’alto non si scende, si cade. Oggi Alex Schwazer guarda il suo successo di Pechino, oro a 23 anni nella 50 km, e gli insuccessi successivi (Berlino, Barcellona, Deagu...) con una maturità diversa. Con un nuovo distacco e con la consapevolezza di partire per Londra accreditato della miglior prestazione mondiale stagionale sulla 20 km e di quella cosa che lui chiama semplicemente “star bene” sulla 50 km, la sua preferita. Poi si vedrà, ma intanto c’è una persona nuova.

– Che cosa vuol dire clausura, Schwazer?

«Una vita da monaco. Allenarsi, mangiare, dormire, allenarsi. Allenarsi, mangiare, dormire, allenarsi».

– Da Pechino a qui ha cambiato “conventi”, perché?

«Quando ho lasciato Saluzzo, dove mi allenavo prima, ho creduto di poter continuare in Alto Adige, a casa mia. Ma non funzionava: l’amico che ti tenta, la mamma che ti cucina, troppe comodità. Per la marcia devi metterti al livello dei tuoi colleghi dell’Est, che hanno fame vera, entrare nelle loro scarpe, imparare a pensare come loro».

– Dove ha trovato le scarpe dei russi?

«A Settimo Milanese, perché a Milano abita Michele Didoni, il mio attuale allenatore, la persona che mi ha dato fiducia quando non ci credevo più. Lì capitano anche due settimane filate di nebbia. Quando sono arrivato mi sono detto: qui va bene. O dopo una settimana torni a casa in lacrime dicendo che non ne vuoi più sapere, o resti e affronti quello che c’è da affrontare».

Alex Schwazer, trionfo nella 50 km di marcia a Pechino 2008. (foto Ansa)
Alex Schwazer, trionfo nella 50 km di marcia a Pechino 2008. (foto Ansa)

– Che cos’ha affrontato?

«Diecimila chilometri l’anno: 250 circa a settimana, prima arrivavo a novemila al massimo. È normale, si cresce, ma ci vuole testa: senza, non riesci a fare fatica oggi e andare a dormire sapendo che domani ne farai altrettanta e dopodomani di più. A volte, lo ammetto, ho sognato un lavoro d’ufficio, un cartellino da timbrare, per sedermi: però una delle cose che mi danno soddisfazione in questo momento è la stima delle persone che si allenano con me, non per i risultati ma per la serietà con cui faccio il mio mestiere».

– In mezzo cos’è successo, ha perso la fame?

«Ero arrivato a Pechino crescendo sempre un po’, in fondo inconsapevole: quando ho vinto la mia prima medaglia ai Mondiali, nel 2005, sono partito credendo di arrivare 20°, fin lì se ero forte fisicamente il resto veniva. Dopo Pechino, invece, ero il campione olimpico, uno che tutti cercano, da cui si aspettano tutti che vinca sempre: mi allenavo ancora, ma avevo altre cose, attorno un’attenzione che non conoscevo. Andavo in gara e mi dicevo: vinco. Ma non era più come quando non mi conosceva nessuno».

– È per questo che si è isolato?

«È stato facile, se non vinci non ti cercano. Ma questa tranquillità, questa assenza di distrazioni è nelle mie corde. Non è che io sia scappato, ma l’essere solo con me stesso ad allenarmi, senza riflettori, mi fa stare bene».

– Il fatto che la sua fidanzata, Carolina Kostner, sia un’atleta la aiuta?

«Sì, anche se le esperienze non sono sovrapponibili perché sono discipline diversissime. Però è fondamentale avere accanto qualcuno che comprende i sacrifici e non te li fa pesare, ma li rispetta e li capisce. Diversamente sarebbe impossibile».

– Ha mai pensato di non farcela?

«Dopo che sono ripartito, dopo l’infortunio al ginocchio, mai. Ripensare alla fatica che avevo fatto per arrivare a Pechino mi ha impedito di buttare al vento tutto il lavoro che avevo fatto da ragazzo. Ma dopo Barcellona, quando non riuscivo più ad apprezzare il valore di una medaglia d’argento nella 20 km, mi sono chiesto che senso avesse tanta fatica. È stato quello il momento più duro».

Europei di Barcellona, ritirato nella 50 km e medaglia d’argento nella 20 km. (foto Ansa)
Europei di Barcellona, ritirato nella 50 km e medaglia d’argento nella 20 km. (foto Ansa)

 - Nonostante l’argento, peggio dei Mondiali di Deagu l’anno scorso, quando è arrivato nono a due minuti dal primo?

«Sì. Senza Didoni forse non avrei accettato di andare ai Mondiali sapendo di non essere al 100%, a fare solo la 20 km con la prospettiva di arrivare 15°. È stato bravo il mio allenatore a imporsi; mi ha detto: “No, tu ci vai e fai la tua esperienza anche se non sei in forma. Finisci la gara, ti servirà”».

 – Aveva ragione?

«Sì. Un atleta impara con il tempo a conoscere le proprie sensazioni, a riconoscere quelle che ha già provato. Didoni è una persona di grande sensibilità, non si limita a dirti “dobbiamo fare questo”, se capisce che non ci sei con la testa ragiona con te finché trova la soluzione. Sono fiero di averlo come tecnico e come amico, se oggi vado a Londra con una consapevolezza nuova lo devo anche a lui. Quello che lui ha fatto a Deagu è la prova che nemmeno il campione olimpico può illudersi di fare da solo».

 – A Londra si è iscritto a 20 e 50 km: che cosa vorrebbe, medaglie a parte?

«Arrivarci esattamente come mi sono sentito nelle ultime settimane. C’è chi dice che la vita sia una specie di montagna russa che alterna alti e bassi. Io adesso sento che sto salendo ed è una bella sensazione, spero di conservarla fino alla partenza. Se così sarà, partirò con un sorriso».

– Si sente più forte rispetto a Pechino?

«Come persona sì. Sono più maturo, ho imparato a soffrire: so che non devo avere paura né del caldo, né del freddo, né della pioggia. A Settimo ho sperimentato tutto e non ho mai mollato».

– La sua soddisfazione, a parte vincere?

«Finire una gara con la coscienza a posto. Non dovermi guardare dentro e pensare: potevo, dovevo fare di più».

Elisa Chiari
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