22/05/2011
Forno di Coazze, maggio 2011. Due dei 31 profughi africani scappati da conflitti etnici, politici o religiosi, riparati in Libia e da lì scappati all'inizio della guerra (foto: Paolo Siccardi/Sync).
Fa effetto, non c'è dubbio. Vedere arrivare 31 africani in un borgo alpino che ufficialmente conta 27 residenti ma i cui abitanti sono meno, molto meno, beh, rappresenta una notizia. È accaduto in località Ferria, frazione Forno, Comune di Coazze, alta Val Sangone, provincia di Torino, un posto incantevole che ospitò in vacanza Camillo Benso conte di Cavour e che, nel 1901, accolse e ispirò anche Luigi Pirandello il quale dalla scritta ancor oggi visibile sul campanile della chiesa di Coazze ("Ognuno a suo modo") trasse il titolo della fortunata commedia del 1923: Ciascuno a suo modo.
Chissà se qualcuno l'avrà spiegato ai profughi mentre salivano all'alba, mezzi addormentati, la testa appoggiata ai vetri del pullman. L'Italia tende la mano al mondo a Lampedusa. Poi, apre le porte di casa sua dalla Sicilia in su, passando molto spesso per Manduria, provincia di Taranto, e salendo fino al Friuli Venezia Giulia, al Trentino Alto Adige, al Veneto, alla Lombardia, alla Liguria, alla Lombardia (ma ci sono arrivi anche in Sardegna). Non lo fa sempre con il sorriso sulle labbra. Anzi. Quando ci si mette di mezzo la politica, cioè sempre o quasi, fioccano le polemiche e i santini degli "italiani brava gente" finiscono spesso in mille pezzi. Quella che raccontiamo in questo dossier è a onor del vero una storia che passa attraverso iniziali chiusure ma che alla fine vede vincere il buon cuore e il buon senso. Di tutti.
Alcuni dei 31 profughi africani davanti alla chiesa della borgata Ferria, a Forno di Coazze, in alta Val Sangone (foto: Paolo Siccardi/Sync).
In ogni caso la priorità assoluta va a loro, ai profughi, al loro calvario, alle loro speranze. I 31 africani giunti a Forno di Coazze parlano molto bene francese e inglese, sono giovani, ma non giovanissimi (tranne un bambino, orfano di mamma, qui con suo padre), hanno tutti una formazione scolastica più che accettabile, talvolta sono addirittura laureati, e, a detta di chi è stato con loro giorno e notte, cioè a detta dei volontari delle organizzazioni umanitarie che li assistono, sono animati da buona volontà: hanno già fatto una serie di lavori nella casa della parrocchia che li accoglie. Particolare non di poco conto: sono tutti cristiani cattolici e hanno stupito i residenti di Forno di Coazze (amministratori comunali in testa) quando a gesti hanno chiesto dove venisse celebrata la Messa.
Il primo a raccontarsi è Julius Eguasa, 28 anni, nigeriano, scappato per motivi politici: «Mi oppongo a chi opprime la mia gente; cercavano me e hanno ferito mio papà. Ho dovuto andare via, altrimenti mi avrebbero preso o, peggio, ucciso. Dopo tante peripezie, un mese e mezzo fa sono approdato in Sicilia». Roland Lisombi, 27 anni, e sua moglie, la ventiduenne Oghogho Omobude, vengono invece dal Camerun Sudoccidentale: «Siamo finiti in Libia, a Misurata, ad aprile siamo fuggiti dai combattimenti e siamo sbarcati a Lampedusa». Ammettono di aver pagato («Circa 200 dollari») ma solo per la prima volta della loro odissea in cerca della libertà e della salvezza. «Dove mi piacerebbe vivere? In Germania», afferma Roland.
Rigo, a sinistra, 37 anni, e suo figlio Cams, 10. Sono scappati dal Congo dove la moglie di Rigo è stata uccisa durante una manifestazione religiosa (foto: Paolo Siccardi/Sync)..
Rigo, 37 anni, e suo figlio Cams, 10, sono quelli che sorridono meno. Sono scappati dal Bas-Congo, la provincia sudoccidentale della Repubblica democratica del Congo, dove la moglie di Rigo è stata uccisa nel 2007 durante una manifestazione promossa dall'opposizione per motivi politico-religiosi-culturali. «Sono fuggito per cercare di dare un'alternativa a mio figlio», racconta Rigo. «La mia famiglia, i miei fratelli, le mie sorelle, hanno messo insieme una cospicua somma, 500 dollari, con la quale abbiamo intrapreso un lungo viaggio: Congo Brazaville, Repubblica Centrafricana, Ciad, Niger e Libia, Paese nel quale siamo rimasti per anni. Ci trovavamo bene, siamo stati anche a Tripoli. In Libia, un amico che mi ha dato lavoro: facevo il decoratore. Poi, all'inizio del 2011, gli scontri, la guerra civile, i bombardamenti Nato. Siamo saliti su un barcone, sognando l'Europa. Ora, eccoci qua».
Nivelle Ngu, 28 anni, ammette di avere avuto tantissima paura durante le traversata del Canale di Sicilia: «La barca era stracolma, saremmo stati 240-250 in tutto, temevo di far naufragio e di morire». La ventenne Happy Ikewun spera di mettersi presto a lavorare: «Sono pettinatrice, che dice riuscirò a trovare qualcosa da fare?». Jude (29 anni) e sua moglie Joy Iwuala, scappano dalle tensioni e dai conflitti che continuano a insanguinare certe regioni della Nigeria, Biafra compreso.
Due abitanti residenti di borgata Ferria, a Forno di Coazze. I vicini parlano bene dei 31 profughi africani (foto: Paolo Siccardi/Sync)..
I nomi e le storie s'intrecciano. Chi sogna di finire in Francia, chi invece di andare ad Oslo, in Norvegia. Tutti concordano nel dire che a Forno di Coazze quando c'è il sole va bene, ma quando è brutto o tira il vento il freddo si fa sentire, eccome. Si sentono circondati da premure. Hanno chiesto asilo politico, sanno che ci vuole del tempo perché la loro situazione sia definitiva dal punto di vista giuridico. Nel mentre, vorrebbero rendersi utili.
A Forno di Coazze sono seguiti dagli operatori della cooperativa Liberitutti, che agisce all'interno del coordinamento Connecting people. Spiega Daniele Caccherano, uno dei responsabili: «Non hanno diritto a diarie, distribuiamo noi tutto ciò di cui hanno bisogno, dagli spazzolini da denti ai maglioni, dai pigiami alle scarpe. Diamo loro anche schede telefoniche. Il mangiare, finché l'Asl non darà il benestare e dunque non potranno farselo da soli, secondo i propri gusti, è assicurato da un servizio di catering in cui lavorano anche detenuti delle Vallette di Torino. La prima preoccupazione, ora, è seguire l'iter burocratico per il riconoscimento dell'asilo politico. Stiamo per avviare anche corsi di italiano: è giusto aiutarli a capire e a farsi capire».
I loro vicini di casa non si lamentano affatto. Così Piero, così Giuseppina e Amabile. Parlano bene di quella gente venuta su dall'Africa, sono bravi, dicono, hanno un sacco di problemi, ma sono gentili. Parole buone per tutti, in particolare per il piccolo Cams: «Che ne sarà di lui, povera gioia?».
Alberto Chiara