12/10/2012
Sono giovani, tatuati e violenti: per loro, i membri delle
pandillas, gang che oggi rappresentano una vera emergenza sociale in buona
parte dell'America Latina, la vita ha un destino già scritto. E, proprio perché
non hanno niente da perdere, trasformano la rabbia che portano dentro per il
futuro a cui non hanno libero accesso in omicidi, prevaricazioni, vandalismi
gratuiti nei confronti dei rivali con cui si contendono il controllo sul
territorio. I più fortunati finiscono in carcere, gli altri al cimitero. Gli
scontri tra band in Paesi come Salvador, Guatemala e Honduras sono diventati
una condizione naturale nei quartieri più degradati delle grandi città, là dove
alcuni Governi hanno preferito chiudere gli occhi di fronte al fenomeno e oggi
si ritrovano intere comunità soggiogate dalla paura che queste bombe a
orologeria esplodano. Le pandillas sono questo e molto altro ancora: sulla loro
nascita e sulla loro trasformazione si interrogano sociologi, psicologi,
educatori e politici (poco). Intanto però la loro forza è così dirompente che
anche Paesi molto lontani come l'Italia cominciano a vederne gli effetti con la
riproposizione delle medesime dinamiche sudamericane: l'appartenenza a una
banda travalica ogni confine. Lasciarsi tutto alle spalle, magari per
ricongiungersi ai propri genitori emigrati anni prima, è tutt'altro che
semplice, anche per chi a un certo punto ne farebbe volentieri a meno: i
tatuaggi in posti visibili come il collo e la testa rigorosamente rasata servono
proprio a "marchiare" l'individuo in modo indelebile. Da una parte
rappresentano l'orgoglio di essere "uomini veri" che non hanno paura
di niente e di nessuno, dall'altra sono, con un effetto boomerang, una sorta di
bersaglio permanente per i rivali. I tatuaggi indicano, a prescindere, chi deve pagare: a scatenare le risse e gli accoltellamenti sono
sufficienti uno sguardo di troppo, un gesto esagerato, un passo falso sul
marciapiede sbagliato.
Alberto Picci