17/05/2013
Un capo prodotto in Bangladesh (Reuters).
Il 24 aprile, a Dacca, capitale del Bangladesh, un edificio chiamato
Rana Plaza crollò, uccidendo circa 1.200 operai. Tutti del settore
tessile, perché il Rana Plaza rigurgitava (oltre 3 mila “inquilini”) di piccole fabbriche e botteghe artigiane del settore tessile
che, con le sue 4.500 aziende (che occupano oltre 3 milioni di persone,
per il 90% donne), procura i due terzi delle esportazioni del Paese. Il
Bangladesh, con i suoi 161 milioni di abitanti, è uno dei Paesi più
densamente popolati e più poveri al mondo.
Il disastro di Dacca, per le sue caratteristiche, ha “bucato” il muro
della scarsa informazione e dell’indifferenza che in genere avvolge i
drammi sociali del Terzo Mondo.
Quella che molti non hanno notato,
invece, è la reazione dell’Unione Europea, che ha minacciato di togliere al Bangladesh la clausola di “preferenza generalizzata",
che consente appunto ai prodotti di quel Paese di essere importati in
Europa senza “quote” (cioè senza limitazione di quantità) e senza dover
pagare accise.
E’ una minaccia paradossale.
Per essere competivi rispetto
alla richiesta europea, i prodotti del Bangladesh devono costare men che
pochissimo. Un’ora di lavoro di un operaio tessile in Bangladesh costa
in media mezzo dollaro, contro per esempio i 21,9 dollari che si
registrano in Italia. Un vero sfruttamento, che fa il paio
(appunto) con le infine condizioni di sicurezza in cui gli operai sono
costretti a lavorare. Solo grazie a queste condizioni disumane le
importazioni del tessile del Bangladesh sono riuscite a farsi largo in
Europa, dove nel biennio 2010-2012 sono cresciute del 9% (fino a formare
il 6,4% di tutte le importazioni tessili della Ue), mentre calavano del
10% quelle della Cina, del 4% quelle della Turchia e del 17% quelle
dell’India. E ora li minacciamo di render loro ancor più dura le vita?
Fulvio Scaglione
Dossier a cura di Alberto Chiara e Fulvio Scaglione