31/05/2012
Una foto d'archivio di emigranti italiani all'estero.
Non si è persa memoria, in Australia, dell’ondata migratoria che si riversò nella terra dei canguri quando gli Stati Uniti decisero di chiudere le loro frontiere. In tanti trovarono lavoro, dagli anni Venti in poi, nelle fonderie di Port Pirie.
Ancora oggi si racconta di quando, accertato l’avvelenamento cronico da piombo che aveva colpito i lavoratori, in gran parte europei e, in particolare italiani, la commissione d’inchiesta governativa concluse che “questi lavoratori si erano ammalati perché molto più sensibili ai rischi rispetto agli australiani”.
Una sensibilità alla malattia dovuta al fatto che “erano sporchi, mangiavano male, avevano idee primitive, erano più emotivi (e quindi più inclini alla paura e alle malattie degli anglo-britannici) e non parlavano inglese”.
Nella relazione non c’era alcun accenno al fatto che gli stranieri provenienti dal Sud Europa, e in particolare dall’Italia, erano assegnati ai lavori peggiori, più vicini ai fumi e alla polvere degli altoforni. In seguito anche a inchieste di questo tipo si diffuse in Australia la convinzione che gli stranieri, in particolare gli europei non di lingua inglese, fossero inferiori e che costituissero una minaccia per la purezza della razza e la sopravvivenza stessa del Paese.
Annachiara Valle