Fare il bene e farlo bene

Nel segno di san Leonardo Murialdo, Engim internazionale è storicamente schierata dalla parte dei giovani e dei più indifesi. La parola a una volontaria

Con i miei occhi, con il mio cuore

30/10/2012

«Cinque mesi mi sembrano un tempo sufficientemente ampio per raccontarvi qualcosa della mia esperienza argentina con il Servizio Volontario Europeo. Sono arrivata qui a Rosario de la Frontera a marzo, con un autobus che ha viaggiato per 1100 kilometri da sud verso nord, un nord sempre più assolato e caldo, dove l’estate non voleva saperne di terminare. Muoversi dentro un Paese esteso nove volte l’Italia significa abbandonarsi al piacere del viaggio, affidarsi alla strada e godere di paesaggi che non pongono confini alla vista e all’immaginazione. Viaggiare in Argentina è una lunga e piacevole attesa, un allenare lo sguardo a una natura profondamente differente; le immense distese di soia, le coltivazioni di ulivi e canna da zucchero si alternato a paesaggi aridi e ostinatamente incoltivabili. Passando di lì devi augurarti di non forare una gomma, perché per centinaia di chilometri l’espressione più vicina a un essere umano, che puoi sperare di incontrare, è una vacca … e non sempre è viva! L’altro viaggio, quello dell’anima, è un susseguirsi di emozioni indescrivibili, di pensieri, di esperienze e conoscenze che solo ora, a distanza di mesi, prendono forma e forse voglia di essere raccontati e condivisi.


Rosario de la Frontera è un “pueblo”  tranquillo nel nord dell’Argentina, che va al di là dell’immaginario di un Paese tutto tango, carne e Peròn. Lontano dallo sfavillio e dai ritmi frenetici di Buenos Aires, lontano dai paesaggi maestosi della Cordigliera, Rosario è una città di frontiera di un'Argentina “criolla”. Passeggiando per le vie di Rosario a volte si ha l’impressione di trovarsi dentro una pellicola degli anni ’50, una di quelle che racconta della mia bella Sicilia dalle strade sterrate, con le galline nel cortile, con i bambini – tanti - che  giocano liberi per strada e con l’impressione che nessuno ti stia guardando, quando invece ci sono occhi invisibili che ti osservano dietro una finestra socchiusa. È come ritrovarsi dentro quel mondo che hai provato ad immaginare dai racconti dei tuoi genitori bambini, quel mondo di cui ora puoi sentire gli odori e i sapori. 

Questa, certamente, è solo una parte della storia, l’altra, altrettanto reale, è fatta di cellulari, internet, automobili, imprese, ristoranti, cinema, discoteche, scuole, università, tutte quelle cose che con una parola chiamiamo modernità, a volte frutto di uno sviluppo auspicato, a volte frutto di un desiderio fittizio, che non era il tuo … ma che ti hanno fatto credere lo fosse! Nell’architettura domina una decisa essenzialità, poco interesse per l’estetica e grande valore al necessario. È un luogo, questo, dove la popolazione è talmente esigua rispetto alla disponibilità di terra che non è necessario affollarsi in palazzi di quindici piani; qui ancora puoi permetterti il lusso di essere sepolto sotto terra, e basta girare l’angolo per trovare uno spazio verde dove portare a giocare i bambini. Dentro questa realtà così contraddittoria e autentica sto svolgendo il mio anno di volontariato; un anno per ascoltare e per ascoltarmi, un anno per fare e fare bene, ad un età in cui ho sentito la necessità di dedicarmi del tempo per seguire un sogno per anni lasciato sul fondo di un cassetto. Qui lavoro in una scuola in percorsi di appoggio scolastico e di contenzione sociale a contatto con bambini e ragazzi dai sei ai diciassette anni. Oggi, a distanza di cinque mesi dal mio arrivo, ancora mi stupisco di come sia riuscita ad imparare tutti i loro nomi, di come sia capace di riconoscere in ognuno di quei volti, che all’inizio mi sembravano tutti uguali, una storia unica … che non sempre è serena, non sempre è felice.


Di tutte queste storie ve ne voglio raccontare una, quella di Santiago (il nome di fantasia serve a tutelarne la privacy). Santiago è il maggiore di cinque fratelli che frequentano il Nadino, centro di appoggio scolastico nato per garantire ai bambini la possibilità di trascorrere i pomeriggi in un ambiente sano e di pranzare nella mensa della scuola, grande aiuto economico per le famiglie. Santiago vive in un’abitazione che definirei, senza vergogna, povera, con la mamma, la nonna e i suoi quattro fratelli. La madre di Santiago è l’unica che in famiglia lavora, mentre del padre non si ha più nessuna notizia da tempo, anche se i bambini non perdono occasione di raccontare una storia, con un lieto fine sperato, in cui il padre torna e li abbraccia dicendo che non se ne andrà mai più Ogni giorno, quando varcano il cancello del centro mi trovano nel cortile della scuola, a distanza i cinque fratelli cominciano a correre, una sorta di gara che puntualmente si conclude con un volo tra le mie braccia e un bacio per il vincitore. Santiago, come solo un buon fratello maggiore sa fare, rallenta verso la fine per permettere al fratellino di sei anni di vincere i suoi giornalieri 100 metri. Non c’è giornata che passiamo insieme che non termini con un loro bacio e con quell’ hasta mañana, certezza che l’indomani, vedendomi da lontano, cominceranno a correre e io mi preparerò per accoglierli in questo volo di felicità, loro e mio. Da qualche settimana Santiago non viene più al Nadino, perché adesso deve lavorare; la mamma da sola non riesce a mantenere la famiglia e ha bisogno del suo aiuto. Santiago da qualche settimana non partecipa più a quel volo spensierato, non corre più, non gioca più con noi, Santiago adesso è grande, Santiago adesso ha solo 12 anni».

Alberto Picci
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