20/01/2012
Quel che abbiamo finora osservato come piccola fenomenologia della vita quotidiana deve dunque ammaestrarci intorno a una verità elementare o anche di buon senso: cambiare, in sé e per sé, non dice nulla, se non si stabilisce la natura del cambiamento, cioè poi la sua origine e il suo fine. Da qui, infatti, il cambiamento trae qualità. Subito ne viene che equiparare il cambiamento al Bene e la stabilità del permanere al Male, come spesso si è indotti a credere, è una convinzione completamente sbagliata. Cambiamento e stabilità sono infatti due forme necessarie della vita umana; entrambe possono essere buone o cattive, a seconda del loro contesto.
Con ciò ho anche suggerito implicitamente che cambiare può essere inteso almeno in due maniere diverse: c’è un cambiare come semplice “mutare” delle cose di natura (il cambio delle stagioni, per esempio) e c’è un cambiare come “diventare altro” delle persone (il cambiar vita, per esempio). Questa seconda accezione di cambiare è poi quella che finora abbiamo soprattutto avuto in vista, perché è quella per noi di maggiore interesse. Lo è anche solo per questo: nel cambio delle cose di natura noi siamo per lo più passivi, nel cambio delle cose che ci riguardano come persone siamo, invece, per lo più attivi. O, comunque, possiamo esserlo. Certo, possiamo anche cambiare le cose di natura (la tecno-scienza lo fa alla grande). Ma tutto questo è un semplice fare. Quando cambiamo noi stessi, invece, noi abitiamo il regno dell’agire. Vecchia distinzione, d’accordo, ma importante e sempre da tenere a mente per capire i nostri cambiamenti.
Ebbene, si intuisce facilmente che i cambiamenti del fare dovrebbero essere al servizio dei cambiamenti dell’agire in una visione saggia delle cose. Il mondo della natura è, infatti, un mondo per l’uomo. L’opposto, che pure qualcuno vorrebbe difendere, conduce inevitabilmente alla manipolazione più o meno brutale degli umani: li fa momenti della logica degli eventi naturali, che tali restano, anche se modificati dalla nostra iniziativa. L’uomo ha sempre ragion di fine, la macchina no. E una macchina non può diventare un essere umano. 2001: Odissea nella spazio, dove un computer enorme e sofisticato diventa alla fine un soggetto libero di decidere, è solo un film di fantascienza: fa vedere possibile una cosa impossibile, ossia che un essere umano produca (non generi, che è altra cosa e che accade tutti i giorni) un nuovo soggetto.
Se cambiare l’uomo per cambiare le cose è sempre sbagliato, cambiare le cose per cambiare l’uomo può esser una cosa giusta: naturalmente, se il cambiamento dell’uomo va nel verso giusto. Veniamo così a dir qualcosa del verso giusto del cambiamento. Ebbene, giusto è il cambiamento, anzitutto e in generale, quando si cambia per uno scopo che è (o fa parte di) una strategia di fioritura della nostra vita. In verità, tutti i cambiamenti che desideriamo hanno di fatto questa intenzione atematica. Solo che a volte noi ci sbagliamo – di grosso – e prendiamo per fioritura ciò che sarebbe da chiamare piuttosto appassimento o fallimento. Richiamo alla mente i casi “canonici”, citati in quasi tutti i grandi trattati di etica: se la mira di uno o di una è far soldi o acquisire potere o poter inseguire in ogni modo i piaceri del cibo e del sesso, parlar di fioritura mi par fuori luogo. Bisognerebbe dire in dettaglio perché, ma in questo breve intervento la cosa si può lasciare di nuovo all’intuizione e al buon senso di ognuno. Eppure, molta gente si comporta proprio così. Dimentica o non sa o fa finta di non sapere che il desiderio umano non può star quieto, se ha a che fare con cose che presto se ne vanno e che, in ultima istanza, non sono mai in nostro potere. Perché? Perché il desiderio umano vuole eternità (lo diceva persino Nietzsche).