Che cosa vuol dire cambiare?

La nostra società è ossessionata dal cambiamento, quello che tende al successo, alla realizzazione economica. Ma c'è anche la possibilità di lasciarsi cambiare.

Nel verso giusto

20/01/2012

Noi però non siamo eternità. Cambiare nel verso giusto implica quindi modificare il proprio mondo personale (di cui il proprio mondo emotivo è parte rilevante), che tende, almeno nelle nostre società avanzate, all’autoreferenzialità (al narcisismo). Siamo eredi della modernità, ovvero della lunga storia della costruzione dell’Io e della sua intronizzazione, nonostante tutti i materialismi e i riduzionismi naturalistici. Ma questa tendenza, pur così universalmente diffusa, è tutt’altro che “naturale”. L’Io non è fatto per essere immediatamente per sé. L’Io è una struttura “intenzionale”, ossia è un’essenziale relazione ad altro – e in ultima istanza ad altri (soggetti), compreso l’Altro con la maiuscola. Prova ne è che noi viviamo in quanto “incorporiamo” alterità (conoscendo e desiderando). Persino il nostro corpo è così orientato. Senza aria e luce, senza acqua e pane e frutti della terra, non potremmo vivere. Né potremmo vivere, del resto, senza una carezza; e solo altri possono regalarcela.

Cambiare in modo giusto significa, dunque e fondamentalmente, cambiare la nostra maniera di guardare ad altri (e di guardare ad Altro). Se questo accade, anche la maniera di guardare la natura – su cui oggi molto e giustamente si insiste – cambia radicalmente. Ma cosa vuol dire, intanto, cambiare la nostra maniera di guardare ad altri? Si può guardare ad altri in due modi (semplificando le cose): si può trattare altri come risorse per conseguire determinati vantaggi o un certo benessere. Cioè si può trattare altri come oggetti di consumo, esattamente come si fa per i vari prodotti che servono a riempire il carrello al supermercato. L’altro può essere poi “consumato” in vari modi (la storia umana è per buona parte il risultato di questo “consumo”): può essere sfruttato nel lavoro, può essere abbandonato nell’indigenza, può essere disprezzato, può essere brutalizzato e torturato, può essere tradito o calunniato ecc. Tutto questo perché il “caro io” (diceva ironicamente E. Kant) sia nutrito al meglio. Oppure l’altro può essere “riconosciuto” nella sua grandezza di persona e fatto oggetto non solo di rispetto, maanche di attenzione amichevole. Attenzione di chi prende sollecitudine per il bene dell’altro. In certo modo, ne ha cura; in certo modo, lo protegge e lo libera dal male. Si è già inteso che questa seconda maniera è quella che fa fiorire un essere umano. L’altra, la prima, lo conduce a morte, perché muore nella propria umanità anche colui che fa morire. E quindi si è già inteso che il cambiamento che val la pena perseguire, perché è il primo e il più “regolativo” di tutti i possibili cambiamenti dei rapporti tra noi, è il cambiamento che orienta alla buona complicità con l’altro uomo.

C’è però anche un cambiamento che è il padre di tutti i cambiamenti: il cambiamento che riguarda la maniera di guardare alla nostra origine e alla nostra fine. Qui si fa innanzi il lavoro personale sul senso della dipendenza e dell’indipendenza. Noi tendiamo spesso a essere dipendenti da ciò da cui non dovremmo per nulla dipendere. Viceversa, tendiamo spesso a essere indipendenti da ciò da cui invece dovremmo dipendere. Così finiamo in una confusione dello spirito che rende inutili tanti cambiamenti.

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