Che cosa vuol dire cambiare?

La nostra società è ossessionata dal cambiamento, quello che tende al successo, alla realizzazione economica. Ma c'è anche la possibilità di lasciarsi cambiare.

Un “luogo di senso”

20/01/2012

Vediamo la cosa un po’ più da vicino. La nostra origine è nella coppia genitoriale, almeno in senso simbolico (con le nuove tecniche di inseminazione artificiale il quadro di natura tradizionale non funziona più di tanto…). Ma la coppia genitoriale simbolica è pure un’origine “storica”. Anch’essa infatti ha avuto, a sua volta, un’origine. Il mito adamitico è lì a dire, a modo appunto del mito, che si deve risalire necessariamente a un’origine di natura diversa (trascendente) per venire a capo del problema. Di contro si para il darwinismo, oggi tornato di moda. Ma come teoria generale del senso, il darwinismo è poco più di un surrogato per sprovveduti. Una serie finita di generazioni non toglie, infatti, al finito la sua natura di finito. E il finito da solo non può stare. Sarebbe finito da niente, cioè sarebbe infinito (se niente finisce qualcosa, questo qualcosa è non-finito, cioè, appunto, infinito). Avremmo, allora, qualcosa che è finito e nel contempo infinito. Avremmo un’assurdità impensabile.

Un discorso simile vale per la nostra fine. Certo, ci son di quelli che dicono, come Sartre, che siamo destinati a… ingrassare i cavoli. Ma difficilmente un essere umano di fronte alla morte si accontenta di convinzioni di questo tipo. L’umanità ha sempre onorato i propri morti e in molte maniere ha inventato forme di vita nell’Aldilà, sin dai tempi più antichi. Forse sulla nostra sopravvivenza non ci sono argomenti assoluti (filosoficamente parlando) per pensarla come cosa necessaria. Né la tradizione cristiana, del resto, la predica in questo modo. La vita eterna è piuttosto un dono ricevuto dall’alto. Tutta la vita del nostro desiderio però prende senso solo se si guarda oltre la morte. Ricordavamo già la parola di Nietzsche sul desiderio umano: vuole eternità.

Riprendendo: all’origine, una situazione di “esser già lì”, che rimanda a Qualcuno non riconducibile, a sua volta, ai nodi della fragilità dell’esserci; infine, una situazione di stabilità nella vita che non può che venire da un Signore della vita. All’origine e infine, dunque, un “luogo di senso” su cui non possiamo mettere le mani a nostro piacimento, perché ne dipendiamo radicalmente. Quanto al cambiare, rispetto a questo “luogo di senso”, viene ora innanzi un paradosso. Questo riferimento all’origine e alla fine è ciò che più importa per una strategia di vita, ma questo riferimento è anche quello che meno è visibile ai nostri occhi nella quotidianità. Anzi, è quello che è proprio invisibile. Nella quotidianità siamo assediati da mille richieste di cambiamento, ma nessuna di queste richieste pare correlata con il cambiamento di “prospettiva” domandato da quel “luogo di senso”. E infatti gli esseri umani per lo più se ne dimenticano, a meno che non vedano la morte come un che di imminente per loro. Quell’invisibile è però il senso del visibile: di quel visibile che ottunde uno sguardo che pure, di suo, potrebbe levarsi per mirare altrove.

Peccato! Perché i cambiamenti più profondi sono proprio quelli legati a questa mira dell’invisibile. Lo si afferra subito, solo che si pensi che da questa mira vengono personaggi come Francesco d’Assisi, come Benedetto da Norcia, come Teresa d’Avila o come Caterina da Siena. E migliaia d’altri come loro, più o meno noti. Compresi altri che non hanno mai sentito dire di Gesù di Nazaret.

Sono questi “veggenti” quelli che hanno cambiato il mondo prima d’ogni altro: e per vastità e per profondità e per stabilità di influsso. Certamente lo hanno cambiato più di quegli altri che non hanno mai veramente mirato altrove. Il fatto è che il cambiamento di fondo è quello che la finitudine mette all’opera per esemplarsi su ciò che non finisce mai. Questo, essa ha sempre come destino, se sa di sé. Se sa di sé come di un finito, sa pure di qualcosa come un che di infinito. E non può non desiderarlo per sé. Deve tuttavia tener fermo, un essere finito (come noi tutti siamo), che questo desiderio d’infinito non può essere saturato da un progetto di produzione dell’infinito (il miraggio di quella parte della modernità che è stata da sempre affascinata dall’idea delle “magnifiche sorti e progressive” – tradizione liberale e tradizione marxista); può esserlo solo da un (possibile) libero venire dell’infinito nel finito. Questo venire a noi dell’infinito, che tutte le religioni del Libro predicano, è forse l’ultimo cambiamento possibile per noi. Ma in tal caso si tratta di un cambiamento molto speciale: si tratta di un cambiamento da cui noi siamo cambiati.

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