Impara a desiderare ciò che hai

Non sempre il cambiamento è accolto con entusiasmo nel clima familiare. La vera sfida coincide con l'apprezzare chi si ha di fronte.

Imparare a desiderare

19/01/2012

Siamo ora alla questione cruciale: come mai questa lei ha deciso per il cambiamento? Nel termine del nostro case study perché fu lei a convertirsi, cioè a operare una svolta così radicale? È vero, ha deposto quelle che per lei erano “armi sacrosante” per migliorare il marito; è vero, ha rinunciato alle sue contro-mosse, cioè è uscita dal campo minato della doppia contingenza. Ma tutto questo non basta. Abbiamo tracce che il cambiamento avvenuto abbia qualche altra fonte segreta. Noi andiamo ad attingerla in un adagio agostiniano: «Impara a desiderare ciò che hai!».

Questa è una massima di saggezza che supera ogni suggerimento tecnico e certamente si spiega nell’orizzonte agostiniano del «in interiore homine habitat Veritas». La Verità – e cioè il Signore stesso – abita già nell’intimo dell’essere umano; occorre lasciarla parlare. Finché siamo prigionieri delle nostre pulsioni, dei nostri bisogni, dei nostri desideri egocentrati, probabilmente non lasciamo parlare la Veritas che pare suggerire: «Fa’ una ricognizione di ciò che hai, di ciò che ti dà la vita. Prova a mettere davanti ai tuoi occhi proprio colui/colei che vorresti cambiare, scoprine i doni, anche se non sono esattamente quelli che tu vorresti.

Se ti “arrendi” a vederli in modo disinteressato, essi ti arricchiranno, proprio perché non sono i doni che la tua pervicacia, il tuo volere candidamente cambiare l’altro vorrebbe ». Allora quei doni sono desiderabili: nel nostro caso concreto: la voglia di leggerezza, l’amore, l’ironia, la sobrietà, la ricerca di compagnia possono essere desiderabili e la nostra lei può imparare a desiderarli. Fino a ora ha desiderato ciò che vorrebbe e si è legittimata a volerlo con tutti i mezzi, tirando lui con passione e forza dalla propria parte. Ora può imparare a desiderare ciò che ha, cioè ad aprire gli occhi e il cuore su ciò che la vita le ha donato attraverso il marito. In altre parole, chi impara a desiderare ciò che ha scopre l’orizzonte del desiderio che è assai più vasto del tentativo di ridurre l’altro ai propri bisogni. Fa esperienza cioè dell’abisso che intercorre tra bisogno e desiderio.

Il bisogno rimpicciolisce l’altro/a a mia misura, gli/le richiede di modellarsi secondo quanto mi aspetto da lui/lei; più “credo” al mio bisogno che l’altro/a sia come io mi aspetto, più mi autorimpicciolisco (mi credo “tutto/a lì” in questo bisogno di essere ascoltato/a, amato/a a mia misura). La logica del bisogno non solo rimpicciolisce l’altro riducendolo a mia misura, ma rimpicciolisce anche me, non mi fa uscire dalla cornice che mi identifica con il mio bisogno; sicché i prigionieri sono due: l’altro/ a e me. Il desiderio, invece, che si estende a “ciò che ho” apre orizzonti vastissimi, perché mi abilita a uno scavo rispettoso e profondamente umano e mi tramuta in ricercatore: di nuovo, non di ciò che vorrei, ma precisamente di ciò che ho, anche se a prima vista mi sembrava lontano, perfino contraddittorio.

Di nuovo ancora: l’opera di scavo non è per far saltar fuori ciò che vorrei (la cosiddetta “dittatura” del mio bisogno) ma ciò che è già lì, sotto i miei occhi. L’altro/a può così essere sé stesso/a presso di me e fornirmi registri di vita che non avrei nemmeno sognato e immaginato: nel nostro caso concreto, la leggerezza e l’allegria. Ed è così che si è liberi in due.

Un ultimo esempio concreto: ho un debito di gratitudine verso mia madre per un piccolo evento che ora mi giunge come cambiamento “due”; lei aveva appena raggiunto i novant’anni, lucidissima; il papà era morto da circa un anno. Quella sera avevo io la cura della “vecchietta” e, dopo il telegiornale, ecco la partita. Lei ha il telecomando in mano e rimane tranquillamente sul canale dove c’è la partita. Io la avviso: «Mamma, non c’è più papà! Possiamo liberarci dalla partita e vedere qualcos’altro!». «Ah no – mi risponde lei un po’ risentita – a me la partita piace!». Io avevo ancora nelle orecchie le litigate di quand’ero giovane: papà imponeva la partita e lei diceva che non capiva perché fosse costretta a vedere «degli esagitati che tirano calci a un pallone». E naturalmente, per principio, sarebbe stato uno scandalo ricorrere a una seconda Tv!

Erano passati anni in cui io che abitavo lontana non avevo potuto assistere alla “conversione”. Fatto sta che ora la vecchietta novantenne si gustava davvero la partita: strillava contro l’arbitro e faceva un tifo di tutto rispetto. A me – che insisto a non capire le partite – non rimaneva che gustare la sua gioia. Sì, in effetti, si impara (perché di apprendimento si tratta) a desiderare ciò che si ha!

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