Impara a desiderare ciò che hai

Non sempre il cambiamento è accolto con entusiasmo nel clima familiare. La vera sfida coincide con l'apprezzare chi si ha di fronte.

Un semplice caso

19/01/2012

Ma come si arriva allora al cambiamento “due”? Come si può non impedire al cambiamento tanto desiderato, di mettersi in atto? A tavolino è molto semplice, sembrerebbe anzi che molti autori che prospettano il cambiamento “due” lo ritengano una soluzione a portata di mano, come a dire “basta deporre le proprie ragioni”. Di solito, quando teniamo corsi per addetti ai lavori, proponiamo il seguente case study (che riportiamo per intero) dove è chiaro che la moglie in questione è arrivata al cambiamento “due”, mentre l’allibita amica è rimasta a livelli di cambiamenti “uno”. Ventisette anni di matrimonio, tre figli ormai grandi.

Lei sempre più “religiosa”, accanita frequentatrice della parrocchia. Lui sempre più “ritirato”, astioso, all’erta su ogni cosa che la moglie gli proponesse. Più lei voleva “parlare”, condividere intensamente, più lui era insofferente e distante. Fu lei a “convertirsi”. Un giorno spiegò a un’amica: «Ho capito che lui è un solitario, ma che cerca la mia presenza. Andiamo anche a passeggio assieme. Basta che non parli». «Allora quando sei con lui stai sempre zitta?!», interloquisce l’amica. «Ma no, si parla del più e del meno… La sera, quando usciamo a fare quattro passi, lui sceglie vie piccole un po’ buie e senza negozi… Ma a me va bene, ho smesso di pretendere, anzi, mi sento protetta…». «Hai deciso di vivere in anticipo il tuo funerale?». «Eh no! Sono anzi più allegra; ridiamo, sai, e facciamo battute, specie quando passano i figli a trovarci… Lui mi prende in giro e io non sono da meno…».

Non facciamo fatica a immaginare le contro-mosse dello stallo precedente di questa coppia. Nel suo immaginario lei probabilmente si spiegava la situazione nei seguenti modi: «Se aspetto lui, non si arriva mai a niente, lui è monotono, senza spinte ideali, un posapiano; io mi butto in opere buone in parrocchia e vorrei che lui condividesse, almeno in qualcosa. Lo sollecito, gli offro buone occasioni per uscire dal guscio, gli porto a casa libri interessanti, lo costringo ad ascoltare con me qualche intervento di esperti... Insomma, io ce la sto mettendo tutta perché lui cambi, almeno un poco, altrimenti che marito è? Possibile che io debba comportarmi come fossi zitella, debba far tutto da sola... E i figli poi… Che buon esempio diamo ai figli?…».

Anche questo marito, però, si coltiva il suo immaginario di coppia: «Se stessi dietro a lei, si salvi chi può! Ne ha sempre una nuova, io devo tenerla indietro, devo difendermi da tutte le sue iniziative, se solo la smettesse di fare l’impegnata, se avesse un po’ di tempo per me, per noi due...!». Le due contro-mosse (quanto faticose e deludenti!) hanno nutrito per anni il loro scambio affettivo, portando miniaggiustamenti, cambiamenti parziali e misurati affinché l’altro cambi.

Ma ecco profilarsi il cambiamento “due”: riserviamo a breve l’analisi di come sia potuto succedere, ora gustiamoci gli effetti di un simile cambiamento, sicuramente diverso da tutti gli altri. Il nostro case study ci pone di fronte a un verbo altisonante, forse perfino stonato: ma ci dice che di conversione si tratta, cioè – per esprimerci con una metafora – di un movimento a U, di un’inversione di marcia. Lei non aspetta più che l’altro cambi e comincia a riconoscere qualcosa che pareva avesse sottovalutato: «Lui cerca la mia presenza»; e allora lei si dispone a dare il suo tempo a lui che sulle prime è ancora sulle difensive: «Sì, andiamo a passeggio assieme. Basta che non parli!».

Dal punto di vista del cambiamento “uno”, che è quello dell’amica, il “non parlare” di questa moglie è uno “stare zitta”, una sorta di resa incondizionata e funerea, in cui – ben che vada – cresce l’aureola di santità di lei che si è sacrificata ai limiti di lui. A dire il vero, “basta che non parli” appartiene ancora alla vecchia lingua della contro-mossa, quando per questa moglie il parlare equivaleva a convincere il marito della bontà delle proprie iniziative e della necessità del suo coinvolgimento. E quindi lei – così radicale nei suoi impegni – scopre un nuovo modo di parlare: “del più e del meno”, cioè un linguaggio quotidiano, fatto di piccole cose, non impegnato, perfino sereno, assieme ai quattro passi nelle piccole vie un po’ buie. Ed è lì che scopre di avere abbassato le pretese e di sentirsi protetta: quando voleva tirare lui a fare ciò che era “buono e giusto” si sentiva sola, sprotetta, condannata a tirare a vuoto la carretta; ora scopre che “le va bene” un tempo disimpegnato, ma... pieno.

Di che cosa? Un tempo di allegria, di risate e battute, di buona ironia («lui mi prende in giro e io non sono da meno»), un tempo non sospettato prima, quando pensava il marito soltanto come incapace di condividere, di capire i suoi grandi ideali, di essere al suo fianco.

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