24/04/2013
Quando Sesto San Giovanni divenne la Stalingrado d’Italia Giovanni Bianchi era bambino. Ma quel giorno del dicembre 1943 sul piazzale della Falck Unione, c’erano gli uomini della sua famiglia. Se oggi, dopo una lunga militanza cominciata nel partito popolare e completata nelle sue evoluzioni dalla Margherita al Pd, è presidente dell’associazione partigiani cristiani, lo deve anche a quei giorni e a quella storia.
«Nessuno ovviamente quando il generale chiese a chi non condivideva gli accordi presi con l’azienda di fare un passo avanti lo fece. Glioperai erano coraggiosi non stupidi. Ma continuarono a scioperare e quella notte sarebbero cominciate le deportazioni. Per questo chiamarono Sesto la Stalingrado d’Italia, perché aveva resististo e perché a Stalingrado i nazisti persero la guerra. Ma la memoria della Resistenza di Sesto non è confiscabile solo sotto le bandiere rosse. Io ricordo sempre che il “prevosto”, il parroco, era il tesoriere del Cln e le riunioni dei partigiani si facevano in canonica, i camerini della filodrammatica parrocchiale erano pieni di armi. La collaborazione non ha impedito, nel Dopoguerra, la dialettica, ma sempre all'interno dei valori della Resistenza. C’era la tradizione dei contraddittori sulle piazze, sorta di tribuna politica: da una parte Pajetta, dall’altra Scalfaro. Diversissimi, ma nessuno dei due si sarebbe sognato di mettere in dubbio che l’altro rappresentasse tutta la resistenza, seppure dal proprio punto di vista».
Perché,allora, il 25 aprile suscita ogni volta dibattito, come se fosse una ferita aperta? «La mia impressione è che la nostra cultura politica, a differenza della terza generazione dei tedeschi, non abbia ancora fatto i conti fino in fondo con il fascismo. Quei conti sono un cantiere ancora aperto, in cui però troppo spesso ci si introduce facendo prevalere le esigenze dello scoop che fa vendere rispetto a quelle dell’approfondimento, della meditazione collettiva. Il patrimonio della Resistenza però c’è, è stato affrontato e si deve continuare ad affrontarlo senza limitarsi, come accade, alla strumentalizzazione delle convenienze politiche del momento».
Quando parla di patrimonio della Resistenza, intende patrimonio comune degli italiani? «Io credo che in tempo di crisi sociale ed economica, in cui c’è bisogno di soluzioni credibili, sia legittimo arrivare al 25 aprile chiedendosi se il Paese abbia ancora un “idem sentire”, un punto di riferimento comune cui ispirarsi. La domanda è certo drammatica ma la risposta c’è: è la Costituzione, un patrimonio comune scritto in un periodo difficile a partire da visioni del mondo vivacemente contrapposte eppure capaci di arrivare a una sintesi».
Da molte parti, da molto tempo, si sollevano tante istanze desiderose di modificarla. Che ne pensa?
«Premesso che la seconda parte della Costituzione può essere adeguata ai mutamenti della storia, magari nel superamento del bicameralismo perfetto, meglio se tenendo presente che un maldestro tentativo di riforma è stato fortunatamente bocciato dal referendum del 2006, la filosofia di fondo deve restare intatta e la prima parte con i principi fondamentali non può essere toccata. Non è un caso se, nelle loro diversità, i costituenti concordarono all’unamità su un ordine del giorno proposto da Dossetti in cui si riconosceva l’antifascismo o quanto meno l’afascismo, il non fascismo, come elemento comune. E infatti Calamandrei che aveva tutt’altra formazione rispetto a Dossetti sosteneva che la Costituzione fosse la Resistenza scritta in forma di legge».
Perché allora tante volte il 25 aprile sembra memoria di una parte sola?
«Non va dimenticato che, come bene ha chiarito Piero Scoppola, il fascismo è stato una grande macchina di consenso. La decrescita del consenso è stato un fatto graduale, cui hanno concorso più fattori: la guerra che ha messo a nudo le mascherature retoriche, i nazisti sul territorio... La lotta partigiana è stata solo una parte della Resistenza, l’altra è maturata più gradualmente con il mutamento delle coscienze rispetto al fascismo, nella società, nei seminari. I partigiani non avrebbero retto se non avessero avuto intorno positive complicità dalla società, senza la lenta evoluzione delle coscienze l’elite non avrebbe potuto approdare alla Costituente. Questo è il tessuto comune, al di là degli eroismi, che resiste e che dobbiamo trattare con rispetto».
Che memoria consegniamo ai ventenni di oggi: una storia con il giudizio morale sospeso in cui ogni evento si rappresenta come un punto di vista, o qualcosa di diverso?
«C’è una cosa che secondo me va affermata preliminarmente, che i morti si rispettano tutti: è un dato di civiltà perfino prepolitico. Poi, però, non tutte le cause per cui si muore sono sullo stesso piano: serve una discussione aperta e documentata. E’ uno degli sforzi da fare per ridare radici, motivazioni, spessore etico alle politiche attuali: ho l’impressione che nella politica ci sia poca capacità di previsione perché chi non sa da dove viene difficilmente può sapere dove va. Ricordo David Maria Turoldo, in un incontro con i ragazzi di un istituto tecnico del bresciano. Diceva loro: “Non vorrei che voi foste una generazione senza storia”. Si capiva che i ragazzi faticavano ad ascoltare, facevano chiasso. Li catturò con un aneddoto personale, raccontando di quando era stato con la pontificia opera di assistenza a raccogliere le ceneri nei lager. Diceva: “Ho in mente lo sccricchiolare sotto le scarpe, la sensazione che fosse sabbia e invece erano ceneri dei morti usciti dal camino”. Raccontò di non essere più stato capace dopo di salire su un’auto tedesca, per l’associazione emotiva di quel ricordo. Un fatto banale però capace di far capire ai ragazzi che la storia segna».
Elisa Chiari
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