24/04/2013
Lo storico Claudio Pavone.
In principio fu il mito. Un mito colore rosso sangue: la Resistenza come guerra partigiana contro l’invasore nazista e il suo alleato interno. Rossi e neri, buoni e cattivi separati dallo steccato delle storia. Fu un mito trasmesso di bocca in bocca, tramandato da chi “aveva visto”. Da chi quel 25 aprile 1945, a Milano, aveva magari guardato sfilare il comandante “Maurizio”, capo del Comitato nazionale di Liberazione, l’azionista Ferruccio Parri. O ancora da chi aveva sentito da uno zio o un nonno cantare i ritornelli “di quando si era sul monte”, a cui avrebbe dato poi voce Giovanna Marini. Quando nel 1952 Einaudi pubblicò Le lettera dei condannati a morte della Resistenza tutto questa memoria orale si fece verbo, carta, parola definitiva. E si depositò in Storia.
Fu mito nudo e puro, per anni. A lungo fu impossibile dubitarne. Per spiegare il 25 aprile 1945, giorno della Liberazione nazionale, si disse per tanto tempo che semplicemente “una mattina” l’Italia si era svegliata e aveva trovato l’invasor. Il nemico era lo sporco di risacca lasciato sulla riva dal corso degli eventi. Si cantava a pugni chiusi Bella ciao, ci si commuoveva, e ci si accomodava dalla parte giusta della storia.
Fu Claudio Pavone, storico, a usare per primo l’espressione guerra civile. Era il 1991 quando uscì, appunto, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Vulgata vuole che sia stato proprio il comandante Maurizio a incoraggiarlo sulla strada della “revisione”. Fu come aprire una breccia in un muro. Perché Pavone parlava di tre guerre insieme: una patriottica contro l’invasore; una civile tra italiani di opposto sentire, i rossi e i neri; una di classe, tra borghesi e classi operaie.
Il mito ebbe una torsione, come un ferro che si scalda alla fiamma ossidrica. Fu Pavone a dire per primo che non tutti erano dalla parte giusta, perché i giusti erano da entrambe le parti. Nella città di Alba e nei suoi Ventitré giorni raccontati da Beppe Fenoglio almeno quanto nella Salò di Carlo Mazzantini, camicia nera fino A cercar la bella morte.
Nella breccia passarono episodi e comprimari lasciati fin lì nel fondale buio. Cose come l’eccidio di Porzus, febbraio 1945, partigiani cattolici della Osoppo uccisi dai rossi dei Gap perché così voleva la fedeltà a Tito. O le gelosie omicide tra opposte brigate, le azioniste di Giustizia e Libertà e le comuniste Garibaldi, di cui fin dal 1945 aveva parlato Giorgio Bocca in Partigiani della montagna. Fu Pavone che per primo mise il dubbio nelle vene del dibattito pubblico. Quanti erano saliti davvero sui monti? E quanti a fiancheggiarli? Era stata davvero movimento di massa la Resistenza e la Liberazione? E fu davvero puro diamante o terra mista di perle e vendette?
Accadde quel che era successo con Mussolini. L’opera di uno storico inattaccabile – qui Pavone, per il duce Renzo De Felice – avviò la “revisione”. Come in Francia si fece con la Rivoluzione, ci si mise a lavorare sul mito come su una tela su cui riscrivere la storia patria. Chi a fare i conti, finalmente. Chi a cercare le tracce di una identità nazionale in frantumi, negli anni sempre più sfilacciata. Un passato scomodo per citare un libro di Nicola Tranfaglia veniva alla luce per sussurrare che la Resistenza, per paradosso, aveva segnato La morte della Patria, per dirla con Ernesto Galli della Loggia. Il passaggio che era mancato era quello di un popolo adulto in grado di dirsi la verità; di fare i conti con l’avversario senza farne un nemico; di distribuire torti e ragioni senza fingersi amiconi un’ora dopo la lotta. Né rimozioni, né inciuci insomma.
Luciano Violante.
Negli anni Novanta, l’acqua della Resistenza si è divisa come un mar Rosso. Da una parte chi ne ribadiva la natura di mito fondativo, da Pietro Scoppola a Gian Enrico Rusconi, allo stesso Pavone. Dall’altra chi vi vedeva lo snodo di un’occasione mancata, né più né meno di quanto Gramsci diceva del Risorgimento. La Resistenza aveva fatto male aL’identità italiana (ancora Galli della Loggia) perché nella sua narrazione aveva soggiogato i vinti relegandoli nel buio della cattiva memoria. E aveva amputato la verità.
Di tutto ciò resta traccia stenografica in una seduta della Camera dei deputati. E’ il 9 maggio 1996, Luciano Violante, lunga militanza comunista alle spalle, si insedia alla presidenza di Montecitorio. A un tratto il discorso vira sulla storia patria. E Violante si chiede “se l'Italia di oggi non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà”.
I vinti. Come quelli raccontati qualche anno dopo da Giampaolo Pansa, Morti su entrambi i fronti. Certe volte trucidati da fuoco amico, come quel Giorgio Morelli, nome in codice “solitario”, ucciso da partigiano a Ferrara perché testimone di eccidi tra partigiani e riesumato da Pansa ne Il sangue dei vinti.
L’abbiamo raccontata così, noi italiani. Ce la siamo raccontata così, la Resistenza.Prima come mito intangibile, poi come bugia. Senza vie di mezzo. Di certo abbiamo provato a farne il cemento con cui impastare l’Italia industriale, Sud e Nord uniti nella lotta per il benessere. Ma era malta friabile. E resta ancora oggi il dubbio: come raccontarla a chi oggi ha 20 anni? Mito o (mezza) menzogna?
Francesco Gaeta
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