03/04/2012
Anna Meldolesi
Sarebbe un errore pensare che il libro di Anna Meldolesi si limiti a una denuncia, sia pure molto dettagliata, del fenomeno degli aborti sesso specifici. L’autrice approfondisce molto bene dal punto di vista biologico, tecnico e anche culturale le cause del genericidio evidenziando, numeri alla mano, perché una strage di dimensioni colossali come questi fatichi a trovare spazio sui media, nelle agende degli organismi internazionali come l’Onu e nei centri di ricerca.
Poi però ad un certo punto Meldolesi, che pure, da laica, si dichiara favorevole all’aborto, lancia un sasso nello stagno: «Per chi condanna sempre e comunque l’interruzione di gravidanza», scrive, «è facile prendere una posizione forte e inequivocabile contro gli aborti per la selezione del sesso. Ma per chi si riconosce in uno schema pro-choice o di riduzione del danno affrontare a viso aperto questo fenomeno significa aprire un vaso di Pandora di perplessità e contraddizioni».
Forse non è un caso, quindi, il silenzio delle femministe nostrane, a partire dal movimento Se non ora Quando…
«No, non è un caso. Credo che su questo tema ci sia scarsa informazione e anche, diciamolo pure, un certo imbarazzo. Il genericidio è un dramma che non può essere lasciato solo al movimento anti abortista ma deve coinvolgere tutte le femministe. Impedire a una donna di nascere in quanto donna è qualcosa che offende profondamente la dignità umana di ciascuno di noi. Il fatto che lo facciano donne che non sono ignoranti né emarginate è un duro colpo alle argomentazioni pro-choice».
Come lo spiega questo silenzio?
«Con la paura che, parlando di questo fenomeno, si possano rimettere in discussione le norme sull’aborto e, più in generale, i diritti riproduttivi delle donne che in Occidente, non solo in Italia, sono ormai considerati conquiste di civiltà indiscutibili. Alla luce di quanto accade, però, bisogna cominciare a domandarsi se sia sempre lecito abortire per qualunque ragione».
Quali sono le cause principali del genericidio?
«Il problema è ampiamente diffuso in quei Paesi dove esistono strutture familiari rigidamente patriarcali e patrilineari, dove i beni passano in eredità dai padri ai figli maschi mentre le femmine, sposandosi, lasciano il clan familiare per andare a lavorare altrove. Da questo punto di vista sono considerate un peso, una risorsa a perdere. A questo si devono aggiungere alcune credenze religiose legate al culto dei morti, in base alle quali si pensa che il figlio maschio sia in grado di “aiutare” nell’aldilà l’anima del padre defunto. Infine, in Cina, ma anche in molte repubbliche ex sovietiche gli aborti sesso specifici sono parte integrante delle politiche di pianificazione familiare imposte dallo Stato».
La tecnologia che ruolo gioca?
«È fondamentale perché, tramite la diagnosi prenatale, permette di praticare la selezione sessuale con maggiore facilità rispetto al passato. Possiamo dire che l’arrivo dell’ecografia e dell’amniocentesi ha determinato il genericidio, innescando un vero e proprio terremoto demografico».
La situazione italiana com’è?
«I numeri dicono che il fenomeno è già in atto, soprattutto nelle comunità cinese, indiana e albanese. Quello che non sappiamo con precisione sono le modalità con cui avviene. Non esistono, infatti, dati sugli aborti fatti clandestinamente dalle donne straniere che vivono da noi. Si sa, ad esempio, che le immigrate fanno ricorso al Cycotec, una pillola antiulcera usata a scopo abortivo con gravi rischi per la salute delle donne che spesso ricorrono a dosaggi eccessivi per accelerare l’espulsione del feto. Ogni tanto la cronaca porta a galla casi di cliniche clandestine come quella gestita da una donna cinese e scoperta dalla polizia di Rovigo nel marzo 2010».
Quali sono i possibili rimedi?
«Anzitutto bisogna raccogliere a livello nazionale tutti i dati sul comportamento riproduttivo delle immigrate per avere un quadro più chiaro, come ci ha chiesto anche il Consiglio d’Europa con una risoluzione del 3 ottobre 2011. A livello regolatorio, invece, una soluzione utile potrebbe essere quella di vietare per legge che venga rivelato il sesso del nascituro. In Norvegia, ad esempio, non si può fare prima della dodicesima settimana».
Basta questo?
«No, bisogna parlarne di più, creare un movimento d’opinione che porti ad una maggiore e più diffusa consapevolezza. E soprattutto, è fondamentale coinvolgere le comunità di immigrati in campagne di sensibilizzazione. L’integrazione non può prescindere dal rispetto dei diritti umani a cominciare da quello di poter nascere».
Antonio Sanfrancesco
Antonio Sanfrancesco