«Così ho ritrovato il corpo di Yara»

Parla Ilario Scotti, l'uomo che ha ritrovato il cadavere di Yara Gambirasio tra le sterpaglie, in un campo di Chignolo d'Isola, in provincia di Bergamo. «È stato soltanto un caso».

La psicoterapeuta Maria Rita Parsi: Yara e Sarah, lo stesso epilogo

28/02/2011
Maria Rita Parsi
Maria Rita Parsi

Accomunate anche nell’ultimo atto, accomunate per sempre. Yara Gambirasio e Sarah Scazzi. Entrambe sparite nel nulla lo stesso giorno, il 26 novembre la prima, il 26 agosto la seconda, entrambe ritrovate morte dopo mesi. I cadaveri abbandonati, in avanzato stato di decomposizione, irriconoscibili. Un maledetto copione che si ripete sempre uguale a sé stesso e ci consegna il ritratto di una provincia italiana da incubo, dove spesso il mostro ha il volto bonario e sorridente di un parente, di un amico, di un conoscente. Maria Rita Parsi, psicoterapeuta, scrittrice e presidente del "Movimento bambino" parla di «epilogo agghiacciante» per il caso di Yara e rileva molte analogie con il delitto di Avetrana, per il quale nei giorni scorsi sono stati arrestati Cosmo Cosma e Carmine Misseri, rispettivamente nipote e fratello di Michele Misseri, accusati di averlo aiutato a sopprimere il cadavere.

Professoressa Parsi, si aspettava questa conclusione?
«Purtroppo sì. Dirlo adesso può sembrare cinico ma è come se l’assassino o gli assassini di Yara abbiano aspettato che si placasse il clamore popolare e mediatico per far ritrovare il cadavere e riaccendere nel modo più tragico le luci sulla vicenda. Proprio come accaduto ad Avetrana dove però i fari della diretta non sono mai stati spenti».

La zona del ritrovamento del corpo di Yara era stata battuta più volte durante le ricerche... «Questo conferma che il cadavere sia stato portato lì un po’ prima del rinvenimento. E chi lo ha portato ha voluto lasciare un messaggio preciso».

Rispetto al caso Scazzi, in quello di Brembate c’è stata una maggiore riservatezza, quasi una sorta di pudore, a tutti i livelli. È stato un ostacolo per le ricerche, secondo lei?
«Sia gli inquirenti che conducono le indagini che la famiglia della ragazza non hanno mai usato a sproposito il mezzo televisivo. Non credo affatto che questo atteggiamento abbia ostacolato l’inchiesta, come si ostina a dire qualcuno, ma ha soltanto impedito che anche questa storia diventasse una soap-opera, degenerasse in macabro spettacolo».

L’impressione è che ad Avetrana non ci sia nessun altro modo se non quello televisivo, dei personaggi televisivi e della cultura mediatica per esprimere il dolore o lanciare iniziative di beneficenza. È così?
«Purtroppo sì. Mentre sul fronte giudiziario i due presunti assassini si rimpallano le responsabilità e sembra di assistere a un altro caso Bebawi, mentre il cerchio delle complicità si allarga ad altri familiari come confermano i due recenti arresti, ecco parallelamente questo orrore continuo dove il padre e il fratello della vittima organizzano un evento per presentare un calendario nel quale hanno posato personaggi dello spettacolo. L’intento, quello cioè di costruire un canile, è sicuramente buono ma è fuori luogo il contesto e il modo di organizzare l’iniziativa. Il mezzo televisivo è diventato l’unico modo per queste persone di comunicare con l’esterno e fra di loro».

Qual è, secondo lei, la causa?
«La promiscuità che confonde ogni cosa: il bene e il male, l’opportuno con l’inopportuno, il silenzio con le chiacchiere. Il bombardamento mediatico su questi due casi di cronaca ha avuto effetti devastanti sui bambini che guardano la televisione. Alcuni bimbi di 5-10 anni che seguo quando gli è stata raccontata la favola della raperonzola, la ragazzina chiusa nella torre dalla Strega cattiva, l’hanno immediatamente collegata alle vicende di Yara e Sarah. Un’associazione che a me adulta non sarebbe mai venuta in mente di fare».

Il contesto familiare nella vicenda di Avetrana ha giocato un ruolo fondamentale...
«Tempo fa leggevo una vignetta dove un bimbo domandava al padre: “Papà, la monnezza è un problema?”. E il padre rispondeva: “No, è una metafora”. Ecco, Avetrana è una metafora di una società completamente sradicata che dall’incontro con la modernità sprigiona ogni sorta di orrore come un enorme vaso di Pandora. In una realtà da Barbablù – rozza, primitiva e caratterizzata da famiglie apparentemente stabili ma profondamente disgregate al loro interno – sono stati innestati tutti gli strumenti della modernità: ritmi televisivi, blog per cercare la ragazza, diffusione di video, interviste, sms. Non c’è stato un mediatore culturale per accordare queste famiglie disgregatissime anche se all’apparenza stabili con l’urto di una cultura mediatica tanto travolgente quanto vorace».

Cosa rappresentano questi due delitti e la loro rappresentazione?
«Sono un punto di arrivo e non di partenza. Avetrana è il risultato dei casi degli ultimi dieci anni: Cogne, Erika e Omar, Erba, Garlasco, Tommaso Onofri. Dopo il massacro mediatico e l’ossessione vouyeristica con cui sono stati vissute e raccontate tutte queste vicende ad Avetrana in fondo non poteva non accadere quello che abbiamo visto».

                                                                         Antonio Sanfrancesco

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