25/05/2013
Giuseppe Carini. Forto di Stefano Schirato.
Ritorna a parlare uno dei suoi ragazzi. Uno di quelli che lo ha seguito fino alla fine. E che ha testimoniato contro i mandanti mafiosi, pagando il prezzo di una vita da fantasma.
Quando don Pino Puglisi, nel 1991 arrivò nel quartiere di Brancaccio, come nuovo parroco, Giuseppe Carini, era un giovanotto ventenne, studente di Medicina, che al mattino frequentava la facoltà di Palermo e al pomeriggio giocava al pallone coi coetanei del quartiere dov’era nato e vissuto. Le amicizie provenivano dalle "famigghie" affiliate a cosa nostra. Brancaccio era il feudo di Michele Greco, il papa a capo della cupola di cosa nostra, un quartiere-ghetto ad altissima densità mafiosa. E come tutti i ragazzi, anche Giuseppe, era cresciuto col mito dell’uomo d’onore.
«Volevo diventare come il cugino di mia madre, un uomo considerato da tutti», spiega. Poi l’incontro con questo piccolo prete dalle grandi orecchie e un sorriso disarmante, che va incontro ai bambini di strada e parla di legalità. Un incontro che gli cambia la vita, per sempre. Il 15 settembre del 1993, il giorno del suo 56° compleanno, don Puglisi viene barbaramente assassinato sotto casa sua, da due killer mandati dai fratelli Graviano, boss dinamitardi di Brancaccio. Cosa nostra non poteva più tollerare l’operato di un testardo prete-coraggio che stava strappando, uno a uno, i bambini alla manovalanza mafiosa sotto gli occhi dei picciotti, dimostrando che un’alternativa al sistema e alla cultura malavitosa era possibile.
Dopo vent’anni dalla sua uccisione, la Chiesa lo ha riconosciuto martire e il 25 maggio a Palermo si celebrerà la sua beatificazione. Teste chiave al processo contro i Graviano, che furono condannati all’ergastolo, fu proprio lui, Giuseppe Carini, uno dei "ragazzi" di “3P” come amavano sintetizzare il trinome "Padre Pino Puglisi", uno dei primi giovani animatori della parrocchia, che non avrebbe abbandonato il suo "parrino" neanche dopo morto. Dal 1995, infatti, Giuseppe è "testimone di giustizia"; è stato inserito nel programma speciale di protezione. Da allora è un fantasma, che già all’età di 25 anni, ha dovuto rinunciare a identità, nome, terra d’origine, studi universitari e famiglia che lo ha rinnegato. In 18 anni, come fosse un latitante, ha cambiato dieci volte abitazione, in otto città diverse di cinque regioni italiane. Di rado può calare la "maschera" e, tornando a parlare come Giuseppe Carini, raccontare quell’uomo giusto che lo portato a "conversione". E lo fa con noi, a poche ore dalla beatificazione del suo "parrino".
Don Pino Puglisi.
- Come ha conosciuto don Puglisi?
«Me ne parlò un amico. "Vieni a conoscere il nuovo parroco di San Gaetano. È davvero in gamba", mi disse. Al primo incontro mi propose di dedicare un’ora alla settimana ai bambini di strada del quartiere. Mi diede in mano un pallone di cuoio e andai da loro. Cominciò così».
- Cosa la colpiva di questo sacerdote?
«Mi spiazzava. Mi sfuggiva la sua logica. Ma mi affascinava, e il mio impegno in parrocchia crebbe presto. Era bello vedere che questi bambini cresciuti troppo in fretta si affezionavano a te e al prete che si prendeva cura di loro. Padre Pino, uomo di vasta cultura, era consapevole che bisognava mettersi in gioco totalmente con queste persone. Quello che era suo era nostro. Per ogni iniziativa in parrocchia metteva denari di tasca sua. Viveva la povertà in concreto: saltava i pasti caldi e si accontentava di mangiare scatolette per correre a trovare le persone che avevano bisogno».
- Che rapporto aveva con lei?
«Si parlava tantissimo. Lo spazio era sempre quello della sera tardi, in sacrestia o in auto sotto casa mia. Sapeva parlarmi senza proferire parola e il suo silenzio non era cupo, né pesante. Conosceva bene la mia situazione e anche il fatto che frequentavo amici in odore di mafia, tuttavia non mi fece mai pesare nulla; non mi ha mai rimproverato».
- Un episodio, un aneddoto?
«Un momento importante della mia vita fu quando mi accostai al sacramento della Cresima. Fino a un’ora prima della celebrazione non dissi nulla ai miei genitori perché avevo deciso di non avere alcun padrino e la cosa avrebbe fatto scalpore, non solo a casa mia. Ero l’unico infatti ad aver fatto quella scelta. Quando padre Puglisi lo seppe, m’appoggiò e m’incoraggiò: "Non ti basta Lui come padrino?", mi disse sereno, indicandomi il cielo. Conservo ancora tra le poche cose che sono riuscito a portare via da casa la foto del rito. Quel momento fu dirompente col mio passato e fondamentale per la mia conversione».
- E i suoi genitori?
«Non so se abbiano capito, né ho avuto poi l’opportunità di chiederglielo. So che non hanno mai condiviso né la cultura, né la mentalità mafiosa. Avevamo sì parenti mafiosi, ma con loro mio padre teneva ben pochi rapporti. All’inizio non vedevano male che andassi in parrocchia. Quando iniziarono a ricevere pressioni, mi chiesero di andarmene via da lì».
Giuseppe Carini, testimone di giustizia. Foto di Stefano Schirato.
- Quand’è che capiste che Cosa Nostra non avrebbe tollerato oltre l’operato di padre Pino?
«È stata una veloce escalation di messaggi e minacce. Dalle gomme tagliate dell’auto del sacerdote, alle percosse. Io sono stato perquisito e minacciato più volte».
- Ma quand’è che venne alzato il tiro?
«Capimmo del pericolo quando incendiarono le porte di casa a tre membri del Comitato intercondominale di via Hazon, che operava a fianco di don Pino. La parrocchia, poi, col suo centro d’accoglienza "Padre Nostro" era diventato il punto di riferimento alternativo per tutto il quartiere e questo, cosa nostra non se lo poteva permettere».
- E don Puglisi?
«La prima domenica dopo l’incendio, alla messa delle 11 pronunciò un’omelia durissima: "chi usa violenza è paragonabile a una bestia", affermò rosso in faccia, visibilmente scosso. E aggiunse che se c’era qualcosa da dire dovevano rivolgersi a lui e non ad altri. Mentre parlava, m’accorsi che seduti su una panca stavano alcune persone che non avevo mai visto prima in parrocchia. Capii che la situazione era grave. Poi si andò a pranzare in un luogo appartato in campagna e si parlò a lungo: decidemmo di andare avanti».
- Anche contro le sue disposizioni?
«Sì, voleva che non lo accompagnassimo più alla sera tardi. Ma chi di noi poteva abbandonarlo?».
- A lei disse qualcosa in particolare?
«Sì, un giorno, quando ormai era chiaro che la mafia gli aveva dichiarato guerra, mi prese in disparte e mi chiese calmo: "Se dovesse succedermi qualcosa, ti prego di non lasciarmi solo e di trattarmi bene". Si riferiva al suo corpo una volta ammazzato, visto che io avevo l’accesso all’istituto di Medicina legale e alle autopsie giudiziarie».
- E poi venne il 15 settembre 1993.
«Seppi dell’assassinio la mattina dopo, da mio fratello. Rimasì lì attonito ripetendo "troppo presto, troppo presto". Mi precipitai all’istituto di Medicina legale, nonostante tutti me lo sconsigliassero. Lì avevano assassinato nel 1982 il luminare della medicina legale Paolo Giaccone, che aveva rifiutato di aggiustare una perizia che incastrava un killer mafioso, poi condannato. Volevo assolutamente raggiungere la sala autoptica». Qui si rompe la voce per la commozione.
- Che ricorda?
«Il corridoio antistante e la cella frigorifera. C’era la bara di legno aperta con dentro il corpo nudo del sacerdote. Scoppiai a piangere non so per quanto tempo. Fu uno dei momenti più difficili della mia esistenza. Ma non volevo farmi vedere così, per non deprimere i suoi ragazzi. Assistetti all’autopsia giudiziaria, come avevo promesso a padre Pino. Ma ricordo poco o nulla perché è come avessi chiuso tutto dentro il cuore. So solo che lo ripulii pietosamente dopo l’autopsia».
- All’inizio dell’estate del 1995 lei entrava nel programma di protezione a seguito delle sue testimonianze contro mandanti ed esecutori dell’omicidio. Aveva solo 25 anni. Che cos’è cambiato per lei?
«Tutto. Mi hanno fatto scomparire. Dopo due mese e mezzo ero già fuori dalla mia regione ed è iniziata una vita oscura, fatta di disagi, trasferimenti, cambio d’identità, impossibilità di esercitare i miei diritti civili, come quello del voto, e di usufruire dei servizi essenziali, come quello sanitario. Una non-vita, insomma».
- Tornando indietro sceglierebbe di nuovo di fare il testimone di giustizia?
«Sì. So bene quanto ciò mi sia costato e quanto mi costerà. Ma ho fatto una scelta libera, di coerenza. E le ragioni che trovo per confermarla ogni giorno sono il volto e le parole di padre Puglisi».
- Ma lei non può raccontare alle persone che frequenta quotidianamente della sua esperienza trascorsa accanto a questo straordinario prete…
«Vero. Sono condannato ad essere l’uomo qualunque. Ma posso fare in modo che nel mio lavoro, quanto insegnatomi da padre Pino trovi braccia e gambe. E poi, ogni tanto posso parlare, tornando ad essere Giuseppe Carini: per esempio, quando incontro un amico testimone di giustizia».
- Il più grande insegnamento di padre Pino?
«Ricordo una sua frase: "Cristo è morto per noi quando noi eravamo suoi nemici. E’ l’amore oltre ogni limite. È il motivo della nostra gioia. Posso toccare la sua fede con queste parole. E ciò mi basta"».
Alberto Laggia
a cura di Alberto Chiara e Antonio Sanfrancesco