25/05/2013
salvatore Grigoli, 49 anni, è uno dei killer di don Puglisi. Ora è un collaboratore di giustizia
Nel settembre 1999 l'assassino di don Puglisi, Salvatore Grigoli, allora detenuto nel carcere di massima sicurezza Alessandria, parlò per la prima e ultima volta di quell'omicidio. Ne riproponiamo il testo.
Spunta
all’improvviso nella penombra del parlatorio. È vestito di nero: nero il suo
pullover, i suoi jeans, le sue scarpette di vernice. In una stanza di un carcere di
massima sicurezza Salvatore Grigoli soppesa le parole e le pronuncia con sofferenza. È
stato uno dei killer più spietati di Cosa nostra: ha confessato 46 omicidi, è implicato
nelle stragi di Firenze, negli attentati di Roma, in quello ai Parioli ai danni di
Maurizio Costanzo. Ed è l’autore dell’assassinio che gli ha cambiato la vita,
quello di don Pino Puglisi, il parroco di Palermo ucciso il 15 settembre di sei anni fa
davanti alla porta di casa. Un assassinio che, racconta, «ci sembrò subito come una
maledizione, perché da allora cominciò ad andarci tutto storto». Quella che segue è la
cruda testimonianza di un uomo di 36 anni che ha deciso di collaborare con la giustizia
dopo l’arresto di due anni fa. E che dichiara il suo pentimento.
-Quando sentì per la prima volta il nome Puglisi?
«Quando mi hanno comunicato che doveva morire, un paio di giorni
prima di ucciderlo».
-Perché era stato dato quell’ordine?
«C’era la convinzione che il Centro Padre nostro, da lui
creato, fosse un covo di infiltrati della polizia. Poi si scoprì che non era vero. Ma
innanzitutto perché nelle prediche, a messa, parlava contro la mafia e la gente sentiva
questo suo fascino, soprattutto i giovani».
-C’era qualche frase in particolare?
«Non so se c’era una frase particolare, anche perché a noi le
cose ce le riferivano. I Graviano (i fratelli Filippo e Giuseppe, boss di Brancaccio,
accusati di essere i mandanti, ndr) non andavano alle sue messe. Erano cose che gli
venivano raccontate. Ma Cosa nostra sapeva tutto, pure che continuava ad andare in
Prefettura e al Comune per chiedere la scuola media e il recupero degli scantinati di via
Hazon, che voleva fare requisire, il Comitato intercondominiale, le prediche. C’era
gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare».
-Prima dell’omicidio ci furono le vostre intimidazioni:
l’incendio alle porte di casa dei membri del Comitato, le minacce, il pestaggio di un
ragazzo. Puglisi era cosciente dei rischi?
«Lui aveva capito certamente da dove arrivava il messaggio. Noi
facevamo questi attentati per allontanare da Brancaccio don Pino e la gente che lo
appoggiava. Infatti un paio se ne andarono. Ma Puglisi continuava a fare quello che aveva
sempre fatto, parlare contro la mafia...».
-Un delitto annunciato.
«Sì, anche perché lui rimase solo. Secondo me, si poteva salvare.
Se lo Stato lo avesse protetto, ad esempio. E così successe quello che è successo».
-E arrivaste a quella sera.
«Lo avvistammo in una cabina telefonica mentre eravamo in macchina.
Andammo a prendere l’arma. Toccava a me. Ero io quello che sparava».
-Era nervoso, guardingo?
«No. Era tranquillo. Che era il giorno del suo compleanno lo
scoprimmo dopo. Spatuzza (un componente del commando che lo uccise, ndr) gli tolse
il borsello e gli disse: padre, questa è una rapina. Lui rispose: me l’aspettavo. Lo
disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso».
-Il sorriso di un santo?
«Non ho esperienza di santi. Quello che posso dire è che
c’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso
immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai
provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica
persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a
pensarci, si era smosso qualcosa».
-È vero che si vantò di essere l’omicida di Puglisi?
«È assolutamente falso. Io non avevo assolutamente nulla di cui
vantarmi: se in Cosa nostra fosse stato consentito giudicare un omicidio, io l’avrei
criticato».
-Quell’omicidio fece molto clamore, fin dal giorno dopo. Che
effetto vi fece i giorni seguenti?
«Nessun effetto».
-E le manifestazioni antimafia per le vie di Brancaccio, un mese dopo?
«Cominciammo a capire che non era stata una cosa utile per noi.
Anzi, aveva peggiorato la situazione. Una specie di autogol. A quel punto abbiamo scelto
il silenzio. E poi cominciarono i problemi, e tra di noi, lo commentavamo come una
maledizione».
-Cosa nostra rispettava i preti, quello era il primo omicidio del
dopoguerra.
«Per Cosa nostra la Chiesa era quella che, se c’era un
latitante, lo nascondeva. Non perché era collusa, ma perché aiutava chi aveva bisogno.
Un territorio neutro. Cosa che è venuta a mancare negli ultimi anni».
-Lei è a conoscenza di qualche latitante nascosto da sacerdoti?
«No, però si sapeva nell’ambiente, che in passato era
avvenuto».
-E la Chiesa di Puglisi?
«La Chiesa di Puglisi era una Chiesa diversa».
-Ricorda le parole del Papa ad Agrigento contro i mafiosi, nel 1993?
«Vagamente, io allora ero un mafioso. Mi toccò molto di più una
lettera pubblicata sul Giornale di Sicilia da alcuni giovani che mi invitavano al
pentimento».
-Ma nell’ambiente di Cosa nostra che effetto fecero le parole del
Papa?
«Si vociferava che la Chiesa cominciava ad essere diversa».
-Le bombe in Laterano furono messe per questo?
«No. Era tutta un’altra storia. Rientra in una strategia
stragista di Cosa nostra contro le istituzioni».
-Lei è accusato di un delitto orribile e odioso: il rapimento del
figlio del pentito Di Matteo, sequestrato per lungo tempo, ucciso e poi sciolto
nell’acido per ritorsione contro il padre.
«L’ho conosciuto bene quel bambino. Madonna mia, era un
ragazzo pieno di vita... Cosa nostra mi ha tradito: mi avevano detto che lo dovevamo
tenere per un paio di giorni e basta, fino a quando il padre ritrattava. E invece... Ho
fatto cose che non si possono giustificare, ma questa... questa è stato il motivo del mio
pentimento. Non gliel’ho potuta perdonare».
-Ci sono mafiosi religiosi in Cosa nostra?
«Il novanta per cento dice di credere in Dio. Uno dei miei
coimputati diceva sempre: in nome di Dio, prima che ci muovessimo per andare ad ammazzare
qualcuno. A me questa cosa mi dava fastidio: ma che aiuto ti può dare Dio, che andiamo ad
ammazzare?, gli dicevo io. Ho sentito dire che Giuseppe Graviano qualche volta andava a
messa. È gente che legge la Bibbia. La Bibbia la leggevo anch’io, da latitante. Mi
piaceva leggerla. La leggevo allora e la leggo adesso da credente. Perché è quando sei
solo che cominci a riflettere. Perché loro ti inculcano questa cultura: che tutto quello
che fa Cosa nostra è giusto».
-Che passi della Bibbia ama leggere?
«La vita di Cristo sulla terra».
-Lei dice di essersi convertito.
«Vede, io c’ho questa convinzione: che a me non mi crederà
nessuno. Io sto cambiando, devo cambiare, ma voglio che siano i fatti a far parlare me. Mi
piacerebbe essere a Palermo il 15 settembre per l’anniversario della morte di
Puglisi. Ma a me queste cose non piace dirle, perché penseranno che sono un ipocrita. Lo
Stato poi dovrebbe aiutare chi può cambiare. In questo carcere, ad esempio, mi hanno
negato persino un prete. Come si fa a cambiare? Per cambiare bisogna essere aiutati. Per
questo sono molto grato a padre Mario, una persona squisita».
-Padre Mario Golesano, il parroco di Brancaccio che ha sostituito
Puglisi.
«Sì, io gli devo moltissimo, non mi ha mai abbandonato. Lui mi ha
scritto per primo. Ho provato un’emozione intensa nel ricevere quella lettera. Mi
scriveva di quanto era bello sentire il pane profumato, faticato, sudato, guadagnato con i
sacrifici. Di sentire la gioia dei miei bambini. La gioia che io ho tolto a tanti bambini.
Il mio rammarico è quello di aver tolto tanti padri ai loro figli».
-Un profumo che a Brancaccio non sentì.
«Lì fin da bambini si comincia a sentire il fascino degli uomini
di rispetto».
-Lei ha scritto anche una lettera aperta al sindaco di Palermo,
Orlando.
«Come rappresentante della cittadinanza. Ho invitato chi è in Cosa
nostra a cambiare, a seguire lo stesso cammino che sto facendo io. Conosco i miei
coimputati e sono convinto che alcuni di loro potrebbero cambiare. Anche se è difficile,
perché Cosa nostra ti inculca che tutto è giusto, che lo Stato è il nemico numero uno,
che i magistrati sono dei mostri, che Falcone e Borsellino sono i nemici numero uno di
Cosa nostra».
-Cosa nostra a Palermo è ancora potente?
«Non vorrei che si finisse come a Napoli, in un gruppo di clan in
cui il primo che si sveglia spara. Almeno Cosa nostra manteneva l’ordine. Cosa nostra
in questo momento è in ginocchio. E l’arma è quella dei collaboratori di giustizia.
Chi lascia che vengano denigrati fa un grosso sbaglio».
Francesco Anfossi
(Famiglia Cristiana
numero 36, 12-9-1999)
a cura di Alberto Chiara e Antonio Sanfrancesco