19/04/2013
Al centro: don Tonino Bello, vescovo di Molfetta.
Un sabato qualunque, due del pomeriggio. Il cimitero di Alessano è pressoché deserto. È aprile ma il sole sembra quello di luglio. Una madre col figlioletto sgattaiola veloce a visitare una persona cara. Fa un rapido scarto a destra: si ferma davanti al piccolo anfiteatro circolare e alla lastra di pietra. Una breve preghiera. Un segno di croce, e va. Pochi minuti e un paio di ragazze s’accostano. Fissano a lungo la pietra, il loro sguardo si sofferma su alcune brevi frasi – alcune fra le più famose delle sue espressioni – incise su rocce poste intorno alla tomba: «Ama la gente, i poveri soprattutto. E Gesù Cristo»; «In piedi, costruttori di pace»; «Ascoltino gli ultimi e si rallegrino». Un breve momento di silenzio e ritornano.
È uno sfilare continuo su quella pietra scarna, adornata soltanto da una piccola croce epoche parole: «Don Tonino Bello, terziario francescano, vescovo di Molfetta-Ruvo-Terlizzi-Giovinazzo». Infine, le date: nato ad «Alessano,18 marzo 1935», nel Salento, nel più profondo e povero Sud della Puglia; morto a«Molfetta, 20 aprile 1993», la città dov’è stato vescovo per quasi 13 anni e dove al funerale un oceano di 60 mila persone ha invaso l’intero porto.
Il secondo a destra è don Tonino Bello.
Lo stanno facendo santo, don Tonino. La causa di beatificazione, avviata
nel 2008 dall’attuale vescovo di Molfetta, monsignor Luigi Martella, si
avvia alla conclusione della prima fase, quella diocesana. Poi la
monumentale documentazione andrà a Roma, in Vaticano. Per la gente santo
lo è già. Tanto a Molfetta quanto ad Alessano, tanto a Ugento, dove fu vicerettore del seminario, quanto a Tricase,
dove fu parroco. Sono passati 20 anni,ma ogni luogo parla di lui: gli
edifici ecclesiastici ma anche gli uffici pubblici, le piazze e le vie.
Una foto oppure una dedicazione,una targa oppure una delle sue frasi
celebri.
Don Tonino ovunque. Mai monsignor Bello, tanto meno Antonio. Sempre e
solo don Tonino, il «fratello vescovo povero con i poveri», quello col
pastorale e la croce di legno (di ulivo, però, simbolo della sua terra),
quello con l’appartamento episcopale invaso dai senzatetto e dai
migranti stranieri, quello che girava per le strade del porto e della
vecchia Molfetta sedendosi accanto ai poveri e agli ubriaconi, quello
che aveva la porta sempre aperta, anche alla prostituta che gli aveva
bussato alle quattro di mattina affamata e fradicia di pioggia. Ma anche
quello che parlava di «pace, giustizia e salvaguardia del Creato come
Trinità terrestre» e che tuonava contro chi voleva“militarizzare” la sua
terra, la Puglia, mettendovi le basi degli F16, negli anni Ottanta.
Da presidente di Pax Christi, nel dicembre 1992, già gravemente
malato, sfidò i cecchini di Sarajevo durante la sanguinosa guerradi
Bosnia con Beati i costruttori di pace. Insieme a monsignor Bettazzi, a
don Albino Bizzotto e al piccolo popolo di pacifisti di ogni
provenienza, la "Marcia dei 500" violò l’assedio della capitale
bosniaca, ma senza sfidare nessuno: convinsero i soldati a farli
passare,consolarono le vittime di entrambe le parti,dispensarono aiuti
tanto agli abitanti di Sarajevo che ai serbi. Don Tonino non
accetterrebbe che si scrivesse che era "alla testa del corteo". Diciamo
che stava in mezzo a loro. Santo per tutto questo? Certamente no, c’è
molto e molto altro. Sei pagine di un giornale non possono raccontare la
capacità profetica e l’odore di santità di don Tonino. Forse, possono
darne un assaggio. Il 18 marzo 1993, a meno di un mese dalla morte, don
Tonino compiva 58 anni. Era ormai costretto a letto, e si era fatto
portare nella camera la sua icona preferita di Maria, la stessa che in
precedenza teneva nella cappellina del vescovado dove aveva posto la
scrivania, quando stava bene: a tarda sera si richiudeva lì a lavorare e
a scrivere. La sera di quell’ultimo compleanno il cortile dell’episcopio si era improvvisamente riempito di giovani. Centinaia,
con le chitarre, per fargli gli auguri cantandogli Freedom, libertà, e
«Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, solo Dio basta».
Don Tonino Bello durante la marcia dei 500, a Sarajevo, nel dicembre 1992.
C’è un video che testimonia quel momento,lo si può vedere in Internet:
«Avrei voluto farvi salire e abbracciare a uno a uno», disse a quei
giovani, «ma non è possibile perché siete tantissimi. Chissà», aggiunse,
«se il Signore mi darà la forza e la salute di mettermi non avanti a voi,
come capofila, e neppure dietro di voi, ma in mezzo a voi. Non
abbiate mai paura di essere carichi di utopie, di idealità purissime,
soprattutto quelle che si rifanno ai grandi temi della pace, della
giustizia, della solidarietà». Quasi un testamento spirituale.«L’augurio
che mi fate ritorni su di voi,per la vostra vita, i vostri sogni, il
vostro futuro.Vi voglio bene», aveva semplicemente concluso. Parole e
gesti che ricordano così da vicino lo stile di papa Francesco.
Che ne è stato di quelle centinaia di giovani? Quale segno portano
dentro di sé di don
Tonino? Tra Molfetta e Alessano ne abbiamo
incontrati tanti.
«Tutto quello che sono lo devo
a lui», ci siamo sentiti ripetere in continuazione.
Dai "ragazzi di don Tonino" è nata la
Fondazione don Tonino Bello, presieduta da
Giancarlo Piccinni; l’editrice La Meridiana,
guidata da Elvira Zaccagnino; uno di quei giovani,
Guglielmo Minervini, è stato sindaco di
Molfetta e oggi è assessore regionale in Puglia;
Maria Mazzone, presidente della cooperativa
sociale Adelphia gli dedica ancora oggi
«la testimonianza delle nostre fatiche e dei
nostri errori» nell’assistere con 180 operatori
le comunità di disabili gravi, malati mentali
e giovani in condizione di disagio sociale;
Mimmo Pisani,vicedirettore della Caritas di
Molfetta e responsabile della Casa d’accoglienza
Don Tonino Bello, gli chiede aiuto
«quando non ce la faccio più», racconta. «D’altra
parte, poco prima di morire mi disse: "Ti
raccomando il centro di solidarietà e i poveri".
Se un vescovo ti dice una cosa del genere,
beh, gli dedichi la vita».
«L’eredità di don Tonino è pesante», sottolinea
monsignor Luigi Martella, attuale vescovo di Molfetta. «Portarla mi è
meno difficile perché l’ho conosciuto, e l’ho vissuto come un fratello
maggiore, un punto di riferimento. Se il Signore mi ha voluto qui, dove
lui prima di me è stato pastore, mi aiuterà anche a esserne degno».
Don Gigi Ciardo, parroco da 36 anni di Alessano, sottolinea che,
insieme ai genitori, don Tonino è la persona più importante della sua
vita: «Sono entrato in seminario quandoera vicerettore», spiega.
«Con lui ho imparato a leggere, mi ha formato come uomo ecome prete, mi
ha persino insegnato a nuotare. Portava noi seminaristi davanti a un
albero e ci incantava parlando della bellezza del Creato. Oppure si
usciva la sera in barca, suonava la fisarmonica e ci invitava a
contemplare la luna che declinava sul mare. Quello che aveva di speciale
è che ti faceva sentire unico e importante: quando aveva davanti una
persona non esisteva nient’altro».
Don Gigi ricorda che quando stava per trasferirsia Molfetta come
vescovo, la sera prima andò a trovarlo. Si commosse e disse: «Prestovi
dimenticherete di me». «Così gli ho telefonato tutti i giorni, per un
anno intero», conclude don Gigi. «Da lui abbiamo imparato che il
credente è l’uomo dalle mani aperte, perché non trattiene mai nulla e
nessuno; è l’uomo dalle mani protese, perché fa sempre il primo passo; è
l’uomo dalle mani giunte, nella preghiera. Ci ha insegnato
l’accoglienza: davantia una persona non si discute, la si accoglie».
«Quello che lo ha reso famoso da vescovo, noi lo avevamo già vissuto
quand’era tra noi», aggiunge Giancarlo Piccinni.Viene eletto pastore di
Molfetta nel 1982, dopo aver rinunciato due volte. Tre anni dopo
diventerà presidente nazionale di Pax Christi, e saranno gli anni in cui
si parlerà molto di lui in tutta Italia, per l’impegno infaticabile a
favore della pace, ma anche per le posizioni "senza se e senza ma" che
assume. L’episcopio di Molfetta diviene la sua nuova casa. Una casa
dove, a chi bussa, apre il vescovo in persona. E bussano in tanti. Uno stile pastorale diverso, pioniere
nel tentare di mettere in pratica quel concilio Vaticano II a cui aveva
partecipato, come assistente di monsignor Ruotolo e che immediatamente
aveva cercato di divulgare con corsi e lezioni in diocesi.
Interpreta uno stile di Chiesa che, con la Bibbia in mano, legge la Parola di Dio sfogliando anche il giornale.«È
la Chiesa "della stola e del grembiule",secondo una felice espressione
di don Tonino», spiega don Mimmo Amato, vicario generaledi Molfetta e
vicepostulatore della causa di beatificazione. «Diceva che sono
l’unico paravento della Chiesa, il diritto e il rovescio dello stesso
unico vestito».
Gli immigrati sono già "un problema", per tanta gente. E don Tonino allora invita lo straniero a bussare alla sua porta. «Perdonaci», scrisse nella Lettera al fratello marocchino, «se non abbiamo saputo levare coraggiosamente la
voce per forzare la mano dei nostri legislatori. Ci manca ancora
l’audacia di gridare che le norme vigenti in Italia, a proposito di
clandestini come te, hanno sapore poliziesco, non tutelano i più
elementari diritti umani, e sono indegne di un popolo libero come il
nostro. Perdonaci,fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo
neppure l’ospitalità della soglia».
«Sarebbe sbagliato dare dei suoi gesti e delle sue parole un’interpretazione ideologica», conclude monsignor Vito Angiuli, vescovo di Ugento. «La chiave di tutto il suo operato è mettere in pratica il Vangelo sine glossa e sine modo, cioè senza aggiunte o menomazioni. Ma anche senza confini e senza misura».
Luciano Scalettari
Dossier a cura di Alberto Chiara e Luciano Scalettari