Beato chi rende il mondo più giusto

Don Luigi Ciotti e il filosofo Salvatore Natoli si confrontano sul tema della giustizia alla luce delle Beatitudini. L'anticipazione del volume in libreria da domani.

Natoli: è un programma di vita antieroico

17/04/2013
Il filosofo Salvatore Natoli.
Il filosofo Salvatore Natoli.

Anticipiamo il paragrafo "Fame e sete di giustizia", parte dell'intervento del filosofo Salvatore Natoli per il volume Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia (Lindau).

Nel Vangelo di Matteo il numero delle Beatitudini è maggiore che in quello di Luca. Non è questa la sede per darne ragione e meno che mai per prendere in considerazione le fonti delle due redazioni. Non entro quindi nel merito stretto dell’esegesi, ma mi limito unicamente a mettere in parallelo la seconda Beatitudine di Luca – Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati (6,21) – con quella di Matteo – Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (5,6). Come si vede, i termini che fanno differenza sono due «sete» e «giustizia», ma a farla davvero è il secondo. Gli esegeti sono da tempo concordi nel ritenere che Luca quando parla di affamati si riferisca a coloro che patiscono una fame concreta e materiale, mentre Matteo nell’impiegare l’espressione «fame di giustizia» si riferisca piuttosto a una fame spirituale. Ma l’espressione di Matteo spiritualizza davvero la fame? Non credo, caso mai ne dà una versione più strutturata e complessa: nel connettere fame e sete con la giustizia mostra, sia pur per via indiretta, come la fame – e per fame intendo esattamente quella reale – non è un semplice dato di fatto, ma è conseguenza dell’ingiustizia.

L’idea che Matteo suggerisce è che la spoliazione personale dei propri beni va incontro a un’urgenza – ed è esemplare – ma questo è insufficiente a eliminare la fame, è troppo poco. Infatti, a monte della fame – e proprio di quella concreta – sta l’ingiustizia che solo «la sete e la fame di giustizia» possono eliminare. Bisogna dunque lottare per la giustizia. Le due redazioni delle Beatitudini provengono da contesti diversi e hanno un diverso intento. Le Beatitudini di Matteo, come dice Dupont, si presentano come un programma di vita cristiana, non vogliono semplicemente dirci chi è beato, ma come bisogna fare per avere parte di questa beatitudine; «di qui le raccomandazioni che seguono: voi avete un ruolo da sostenere nei confronti del mondo e questo dovete sostenerlo con le buone opere… Senza queste opere buone, sarete come sale che ha perduto il sapore»

Mi pare, dunque, che le Beatitudini di Matteo le si debba intendere come indicazione di una condotta da seguire e, direi di più, da assumere come una missione. Chi l’assume è solo per questo «beato»; ovvero, coloro che hanno fame sete di giustizia lo sono perché hanno preso su di loro e incondizionatamente la causa dei poveri. In questa Beatitudine Gesù non privilegia dunque una condizione – quella di coloro che sono nell’indigenza e per questo primi destinatari del regno – ma un’azione: chiama beati coloro che operano perché i poveri siano riscattati. E ciò in perfette conformità e coerenza con la tradizione veterotestamentaria. In Esodo 14,30 si legge «in quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani». Ma qui cosa vuol dire salvezza? Significa esattamente riscatto: di Israele si legge infatti che è un popolo che Dio ha riscattato. E Zaccaria ne riprende la formula: «e fischierò loro e li radunerò: perché li ho riscattati e saranno numerosi come erano numerosi prima». Riscattati dunque: nessun povero, perciò, e nessun affamato deve mai sentirsi in debito, perché il debito è stato pagato. Ha invece titolo per rivendicare quel che gli spetta come suo diritto. In questo, ha origine la giustizia.

Nella luce della giustizia ogni forma di pauperismo lungi dall’essere evangelica è semplicemente patetica: solo chi ha fame e sete di giustizia ha il sentimento giusto per stare accanto al povero e soprattutto per lottare insieme a lui per il riscatto. Gesù, infatti, non si limita ad annunciare ai poveri che il Regno è vicino, ma indica i modi con cui portarlo a piena realizzazione. Matteo insiste sull’azione, lo spirito che lo anima è – come nota Dupont – «quello di un catechista preoccupato del modo di agire dei cristiani… egli cerca di precisare, nel miglior modo possibile la linea di condotta che il Maestro attende da loro… Di qui anche la cura di porre in evidenza l’insegnamento pratico che deve sì dedurre da alcuni logia oscuri… Matteo è preoccupato delle realizzazioni immediate».

In questo quadro «ciò che Matteo vede nel Discorso della Montagna è in primo luogo un programma di vita».
Non è dunque affatto un caso se Luca si limita a scrivere «Cercate il regno di Dio» (12,31), mentre Matteo aggiunge «e la sua giustizia » (6,33). Secondo Dupont, le Beatitudini sono anzitutto ed essenzialmente una proclamazione profetica; esse non sono che un altro modo per dire che il «Regno di Dio è qui», che le promesse stanno per adempiersi, che i beneficiari accreditati della felicità messianica della fine dei tempi possono esultare perché i tempi sono compiuti. Agli occhi di Dupont, «la giustizia inserita nel grido di gioia delle Beatitudini sembra suonare dissonante». Al contrario – e per impiegare i termini dello stesso Dupont – «la portata concreta delle Beatitudini» esige le necessarie e pratiche implicazioni. Il Regno è da invocare e nel Padre nostro – che Matteo pone proprio a conclusione di tutto il Discorso della Montagna – lo s’invoca: «venga il tuo regno»; ma di certo mai verrà se gli uomini non agiscono conformemente alla volontà di Dio: «sia fatta la tua volontà». Che culmina poi nel fiat voluntas tua (Mt 26,42) del Getsemani, momento «cruciale» – e letteralmente – di tutta l’esistenza di Gesù.

Sono parole che chiariscono il senso del suo essere venuto al mondo; ne sono cifra e sigillo. Ora, fare la volontà del Padre significa praticare la giustizia sia come condotta individuale che come azione sociale. Nessuna azione mai è solo un fatto individuale perché l’agire è di per sé relazionale: ogni condotta privata, sia conforme o meno a giustizia, è sociale perché – per quanto privata – ha effetti sociali. Tra i diversi tipi di azione vi sono poi quelle intenzionalmente orientate alla società, volte perciò al perseguimento dell’interesse collettivo di quel che si usa chiamare il bene comune. Più prosaicamente – ma è la prosa del mondo a far virtù – ciò vuol dire interessarsi per l’efficienza della cosa pubblica e quindi delle istituzioni che possono generare ingiustizia perfino senza essere in sé inique, fosse solo perché vecchie e inadeguate. Al di là delle intenzioni dei singoli, sono dunque ingiuste per gli effetti che producono, per la loro arretratezza rispetto alle modificazioni sociali e perciò inadeguate a rispondere alle nuove e diverse istanze dei cittadini.

Questa distonia non è senza conseguenze, ma favorisce e incentiva, di fatto, la trasgressione. Per di più diviene terreno propizio per il fiorire dell’extra legem e perciò per l’impiantarsi della devianza e del malaffare. La fame di giustizia, quindi, non può limitarsi a esigere il rispetto delle leggi, ma deve operare alla loro trasformazione. Gli individui si sentono, infatti, tanto più obbligati alla leggi quanto più consapevolmente concorrono alla loro formazione. Allora, è necessario avere cura del funzionamento delle istituzioni, cercando di preservare i diritti dei singoli e di garantire insieme l’interesse di tutti. Fame e sete di giustizia comportano l’impegno e in senso alto quello politico. La politica, se adeguatamente interpretata, è una modalità della carità. È evidente che qui la politica non la si identifica unicamente con il sistema della rappresentanza – come d’abitudine accade – ma piuttosto con un agire interessato al pubblico benessere. Una politica che né chiede né riceve privilegi, ma costantemente opera – e gratis – per il bene della polis. Senza quest’intenzione morale è difficile che possa mai emergere un ceto politico qualificato e responsabile. Non dico disinteressato – cosa impossibile dal momento che la politica media tra interessi – ma che abbia a cuore le sorti comuni, che poi è il fine proprio della politica – e legittima il potere –: il perseguimento di ciò che gli illuministi chiamavano la felicità pubblica. Senza la quale, è difficile vi sia quella privata.

In concreto la giustizia è alla fine e per dirla con un’antica espressione pratica delle buone opere; è esercizio quotidiano, è un aver a cuore i bisogni correnti e comuni attraverso un operare di cui magari nessuno si accorge, ma che dà frutti. La giustizia, quella vera, è infatti antieroica. È quella del samaritano che salda il conto senza che chi ha goduto del beneficio sappia mai da chi lo ha ricevuto. Per chi ha fame di giustizia il disinteresse è colpa e tanto basta per capire perché la giustizia esige obbedienza.

Prendiamo il termine nella sua stretta accezione etimologica, liberato dalle sue equivoche incrostazioni storiche. Esso deriva da ob-audio: sottostare all’ascolto, vale a dire ascoltare la parola dell’altro prendendola sul serio e così sul serio da assumerla come una possibile legge per sé. Guidati da questa disposizione si ha il diritto/dovere di valutare ciò che si è ascoltato e dunque di concordare o, eventualmente, di dissentire, senza che però che le istanze dell’altro siano state sottovalutate o addirittura ignorate. Ma prendere sul serio le parole dell’altro impegna a una risposta: e questo e null’altro vuol dire responsabilità. Il respondeo è l’altra faccia dell’ob-audio: responsabilità è risposta alla voce degli altri che ci chiama in causa e ci coinvolge.

Di frequente ci esoneriamo dalla risposta e così – di fatto e senza neppure volerlo – non ci rendiamo reciprocamente giustizia.
D’altra parte siamo per lo più brave persone – o almeno così ci sentiamo – e perciò siamo ingiusti non tanto per gli atti che compiamo – e ne compiamo – ma per quelli che omettiamo. E così capita di non trasgredire formalmente mai la giustizia e tuttavia di non amarla; ma tra il non trasgredire e l’amare corre una grande differenza. Ne è prova, il nostro non accorgerci – o il modo distratto di considerare – come e quanto la vita venga ogni giorno offesa. Oppure, non ci sentiamo sufficientemente obbligati nel difenderla. Ciechi e sordi innanzi alle ingiustizie, vale per noi il detto evangelico: «Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite» (Mc 8,18). Chi ha fame e sete di giustizia non è disposto a lasciar correre, ma patisce in sé l’ingiustizia che patiscono gli altri. Forse è per questo che la redazione di Matteo aggiunge alla fame di Luca la sete: l’arsura che non sopporta rinvio, che chiede immediato ristoro. Nel linguaggio biblico – specie presso i profeti – fame e sete sono tradizionalmente unite, ma in questo caso «l’aggiunta della sete rafforza l’aspetto del desiderio».

Avere fame e sete di giustizia vuol dire non riuscire più oltre a tollerare che la vita umana venga profanata e offesa. Ma per eliminare o comunque ridurre l’ingiustizia nel mondo è necessaria la diuturnitas, l’operare paziente e perseverante, perché la storia ha troppe volta mostrato come volere scalzare l’ingiustizia attraverso una violenza giusta possa generare molta più ingiustizia di quanto non ne tolga.

Salvatore Natoli (Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, Lindau)

Paolo Perazzolo
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