17/04/2013
Il filosofo Salvatore Natoli.
Anticipiamo il paragrafo "Fame e sete di giustizia", parte dell'intervento del filosofo Salvatore Natoli per il volume Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia (Lindau).
Nel Vangelo di Matteo il numero delle
Beatitudini è maggiore che in quello di Luca.
Non è questa la sede per darne ragione e meno
che mai per prendere in considerazione le
fonti delle due redazioni. Non entro quindi
nel merito stretto dell’esegesi, ma mi limito
unicamente a mettere in parallelo la seconda
Beatitudine di Luca – Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati (6,21) – con quella di
Matteo – Beati quelli che hanno fame e sete della
giustizia, perché saranno saziati (5,6). Come si
vede, i termini che fanno differenza sono due
«sete» e «giustizia», ma a farla davvero è il secondo. Gli esegeti sono da tempo concordi nel
ritenere che Luca quando parla di affamati si
riferisca a coloro che patiscono una fame concreta
e materiale, mentre Matteo nell’impiegare
l’espressione «fame di giustizia» si riferisca
piuttosto a una fame spirituale. Ma
l’espressione di Matteo spiritualizza davvero
la fame? Non credo, caso mai ne dà una versione
più strutturata e complessa: nel connettere
fame e sete con la giustizia mostra, sia
pur per via indiretta, come la fame – e per fame
intendo esattamente quella reale – non è
un semplice dato di fatto, ma è conseguenza
dell’ingiustizia.
L’idea che Matteo suggerisce
è che la spoliazione personale dei propri beni
va incontro a un’urgenza – ed è esemplare –
ma questo è insufficiente a eliminare la fame,
è troppo poco. Infatti, a monte della fame – e
proprio di quella concreta – sta l’ingiustizia
che solo «la sete e la fame di giustizia» possono
eliminare. Bisogna dunque lottare per la
giustizia.
Le due redazioni delle Beatitudini provengono
da contesti diversi e hanno un diverso
intento. Le Beatitudini di Matteo, come dice
Dupont, si presentano come un programma di vita cristiana, non vogliono semplicemente
dirci chi è beato, ma come bisogna fare per avere
parte di questa beatitudine; «di qui le raccomandazioni
che seguono: voi avete un ruolo
da sostenere nei confronti del mondo e
questo dovete sostenerlo con le buone opere…
Senza queste opere buone, sarete come
sale che ha perduto il sapore»
Mi pare, dunque,
che le Beatitudini di Matteo le si debba
intendere come indicazione di una condotta
da seguire e, direi di più, da assumere come
una missione. Chi l’assume è solo per questo
«beato»; ovvero, coloro che hanno fame sete
di giustizia lo sono perché hanno preso su di
loro e incondizionatamente la causa dei poveri.
In questa Beatitudine Gesù non privilegia
dunque una condizione – quella di coloro che
sono nell’indigenza e per questo primi destinatari
del regno – ma un’azione: chiama beati
coloro che operano perché i poveri siano riscattati.
E ciò in perfette conformità e coerenza
con la tradizione veterotestamentaria. In Esodo
14,30 si legge «in quel giorno il Signore salvò
Israele dalla mano degli Egiziani». Ma qui
cosa vuol dire salvezza? Significa esattamente
riscatto: di Israele si legge infatti che è un popolo che Dio ha riscattato. E Zaccaria ne riprende
la formula: «e fischierò loro e li radunerò:
perché li ho riscattati e saranno numerosi
come erano numerosi prima». Riscattati
dunque: nessun povero, perciò, e nessun affamato
deve mai sentirsi in debito, perché il debito
è stato pagato. Ha invece titolo per rivendicare
quel che gli spetta come suo diritto. In
questo, ha origine la giustizia.
Nella luce della giustizia ogni forma di
pauperismo lungi dall’essere evangelica è
semplicemente patetica: solo chi ha fame e sete
di giustizia ha il sentimento giusto per stare
accanto al povero e soprattutto per lottare
insieme a lui per il riscatto. Gesù, infatti, non
si limita ad annunciare ai poveri che il Regno
è vicino, ma indica i modi con cui portarlo a
piena realizzazione. Matteo insiste sull’azione,
lo spirito che lo anima è – come nota Dupont
– «quello di un catechista preoccupato
del modo di agire dei cristiani… egli cerca di
precisare, nel miglior modo possibile la linea
di condotta che il Maestro attende da loro…
Di qui anche la cura di porre in evidenza l’insegnamento
pratico che deve sì dedurre da alcuni
logia oscuri… Matteo è preoccupato delle realizzazioni immediate».
In questo quadro
«ciò che Matteo vede nel Discorso della
Montagna è in primo luogo un programma di
vita». Non è dunque affatto un caso se Luca
si limita a scrivere «Cercate il regno di Dio»
(12,31), mentre Matteo aggiunge «e la sua giustizia
» (6,33). Secondo Dupont,
le Beatitudini sono anzitutto ed essenzialmente
una proclamazione profetica; esse non
sono che un altro modo per dire che il «Regno
di Dio è qui», che le promesse stanno per
adempiersi, che i beneficiari accreditati della
felicità messianica della fine dei tempi possono
esultare perché i tempi sono compiuti. Agli occhi di Dupont, «la giustizia inserita
nel grido di gioia delle Beatitudini sembra
suonare dissonante». Al contrario – e per impiegare
i termini dello stesso Dupont – «la
portata concreta delle Beatitudini» esige le
necessarie e pratiche implicazioni.
Il Regno è da invocare e nel Padre nostro –
che Matteo pone proprio a conclusione di tutto
il Discorso della Montagna – lo s’invoca: «venga
il tuo regno»; ma di certo mai verrà se gli uomini non agiscono conformemente alla volontà
di Dio: «sia fatta la tua volontà». Che culmina
poi nel fiat voluntas tua (Mt 26,42) del Getsemani,
momento «cruciale» – e letteralmente – di tutta
l’esistenza di Gesù.
Sono parole che chiariscono
il senso del suo essere venuto al mondo;
ne sono cifra e sigillo. Ora, fare la volontà del
Padre significa praticare la giustizia sia come
condotta individuale che come azione sociale.
Nessuna azione mai è solo un fatto individuale
perché l’agire è di per sé relazionale: ogni condotta
privata, sia conforme o meno a giustizia,
è sociale perché – per quanto privata – ha effetti
sociali. Tra i diversi tipi di azione vi sono poi
quelle intenzionalmente orientate alla società,
volte perciò al perseguimento dell’interesse
collettivo di quel che si usa chiamare il bene comune.
Più prosaicamente – ma è la prosa del
mondo a far virtù – ciò vuol dire interessarsi
per l’efficienza della cosa pubblica e quindi delle
istituzioni che possono generare ingiustizia
perfino senza essere in sé inique, fosse solo perché
vecchie e inadeguate. Al di là delle intenzioni
dei singoli, sono dunque ingiuste per gli
effetti che producono, per la loro arretratezza rispetto
alle modificazioni sociali e perciò inadeguate a rispondere alle nuove e diverse istanze
dei cittadini.
Questa distonia non è senza conseguenze,
ma favorisce e incentiva, di fatto, la
trasgressione. Per di più diviene terreno propizio
per il fiorire dell’extra legem e perciò per
l’impiantarsi della devianza e del malaffare. La
fame di giustizia, quindi, non può limitarsi a
esigere il rispetto delle leggi, ma deve operare
alla loro trasformazione. Gli individui si sentono,
infatti, tanto più obbligati alla leggi quanto
più consapevolmente concorrono alla loro formazione.
Allora, è necessario avere cura del
funzionamento delle istituzioni, cercando di
preservare i diritti dei singoli e di garantire insieme
l’interesse di tutti. Fame e sete di giustizia
comportano l’impegno e in senso alto quello
politico. La politica, se adeguatamente interpretata,
è una modalità della carità. È evidente
che qui la politica non la si identifica unicamente
con il sistema della rappresentanza – come
d’abitudine accade – ma piuttosto con un agire
interessato al pubblico benessere. Una politica
che né chiede né riceve privilegi, ma costantemente
opera – e gratis – per il bene della polis.
Senza quest’intenzione morale è difficile che
possa mai emergere un ceto politico qualificato
e responsabile. Non dico disinteressato – cosa
impossibile dal momento che la politica media
tra interessi – ma che abbia a cuore le sorti comuni,
che poi è il fine proprio della politica – e
legittima il potere –: il perseguimento di ciò che
gli illuministi chiamavano la felicità pubblica.
Senza la quale, è difficile vi sia quella privata.
In concreto la giustizia è alla fine e per dirla
con un’antica espressione pratica delle buone
opere; è esercizio quotidiano, è un aver a cuore
i bisogni correnti e comuni attraverso un
operare di cui magari nessuno si accorge, ma
che dà frutti. La giustizia, quella vera, è infatti
antieroica. È quella del samaritano che salda
il conto senza che chi ha goduto del beneficio
sappia mai da chi lo ha ricevuto. Per chi
ha fame di giustizia il disinteresse è colpa e
tanto basta per capire perché la giustizia esige
obbedienza.
Prendiamo il termine nella sua
stretta accezione etimologica, liberato dalle
sue equivoche incrostazioni storiche. Esso deriva
da ob-audio: sottostare all’ascolto, vale a dire
ascoltare la parola dell’altro prendendola
sul serio e così sul serio da assumerla come
una possibile legge per sé. Guidati da questa disposizione
si ha il diritto/dovere di valutare ciò che si è ascoltato e dunque di concordare
o, eventualmente, di dissentire, senza che però
che le istanze dell’altro siano state sottovalutate
o addirittura ignorate. Ma prendere sul serio
le parole dell’altro impegna a una risposta:
e questo e null’altro vuol dire responsabilità. Il
respondeo è l’altra faccia dell’ob-audio: responsabilità
è risposta alla voce degli altri che ci
chiama in causa e ci coinvolge.
Di frequente ci
esoneriamo dalla risposta e così – di fatto e
senza neppure volerlo – non ci rendiamo reciprocamente
giustizia. D’altra parte siamo per
lo più brave persone – o almeno così ci sentiamo
– e perciò siamo ingiusti non tanto per gli
atti che compiamo – e ne compiamo – ma per
quelli che omettiamo. E così capita di non trasgredire
formalmente mai la giustizia e tuttavia
di non amarla; ma tra il non trasgredire e
l’amare corre una grande differenza. Ne è
prova, il nostro non accorgerci – o il modo distratto
di considerare – come e quanto la vita
venga ogni giorno offesa. Oppure, non ci sentiamo
sufficientemente obbligati nel difenderla.
Ciechi e sordi innanzi alle ingiustizie, vale
per noi il detto evangelico: «Avete occhi e non
vedete, avete orecchi e non udite» (Mc 8,18).
Chi ha fame e sete di giustizia non è disposto
a lasciar correre, ma patisce in sé l’ingiustizia
che patiscono gli altri. Forse è per questo che
la redazione di Matteo aggiunge alla fame di
Luca la sete: l’arsura che non sopporta rinvio,
che chiede immediato ristoro. Nel linguaggio
biblico – specie presso i profeti – fame e sete
sono tradizionalmente unite, ma in questo caso
«l’aggiunta della sete rafforza l’aspetto del
desiderio».
Avere fame e sete di giustizia
vuol dire non riuscire più oltre a tollerare che
la vita umana venga profanata e offesa. Ma
per eliminare o comunque ridurre l’ingiustizia
nel mondo è necessaria la diuturnitas,
l’operare paziente e perseverante, perché la
storia ha troppe volta mostrato come volere
scalzare l’ingiustizia attraverso una violenza
giusta possa generare molta più ingiustizia di
quanto non ne tolga.
Salvatore Natoli (Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, Lindau)
Paolo Perazzolo