26/04/2013
Un scena di "Nuovo cinema paradiso", Oscar come miglior film straniero nel 1990: tempi lontani.
Tanti, tanti anni fa, quando tv e motorizzazione cominciavano a mietere vittime nelle sale cinematografiche, a un cronista che lo stava intervistando Dino Risi (era da poco uscito Il sorpasso) disse: “Sento parlare di crisi da quando ho mosso i primi passi in questo mestiere.” E siccome era un medico aggiunse subito dopo: “E' una crisi cronica.”
Oggi direbbe che è endemica se potesse dare un'occhiata agli ultimi titoli di giornale: “Allarme cinema”, “Botteghini a picco”, “Il cinema affonda”.
Nell'ultimo mese qualche timido segnale c'è stato (un 16 per cento in più di spettatori), ma il 2012 è stato un anno disastroso: meno 10 per cento di biglietti venduti e incassi giù dell'8 pe rcento.
E' vero che i film prodotti sono aumentati in confronto al 2011 (166 rispetto a 155) e così gli investimenti produttivi (493 milioni contro i 423 dell'anno precedente), ma alla resa dei conti i bilanci hanno segnato un profondo rosso: la quota-mercato, ovvero l'incasso dei film italiani sul territorio nazionale, è precipitata dal 35 per cento al 25 per cento (la differenza è andata a impinguare i proventi del cinema americano) con una forte perdita di incassi (meno 35 per cento) e di spettatori (meno 36 per cento).
A infierire su questa crisi, e in particolar modo sull'esercizio, ha contribuito il fatto che con la fine del 2013 si chiuderà l'era della pellicola e le proiezioni in sala si affideranno esclusivamente al sistema digitale.
Lo standard imposto dalle “majors” americane non consente altri tipi di utilizzazione e siccome il “made in Hollywood” domina il mercato globale bisognerà adattarsi a quello. O bere o affogare! Soltanto la Cina, per il momento, si salverà. Grazie all'effetto-Olimpiadi nel Celeste Impero si aprono 5 mila sale all'anno e a dettare legge, in forza di questa rete capillare, è ancora il potere centrale. Checché se ne dica, il numero continua a essere potenza.
Tutt'altra storia in casa nostra. In Italia gli schermi sono 3.900, dei quali 1800 non sono ancora stati convertiti al digitale. Visto che di questi un migliaio sono in fase di trasformazione, che ne sarà degli altri 800?
Il problema ha fatto sì che al Ministero dei Beni Culturali sia stato aperto un “tavolo di crisi” per studiare una soluzione in grado di salvare il patrimonio culturale rappresentato dall'esercizio cinematografico.
Il problema, ovviamente, investe anche l'esercizio cattolico rappresentato dalle “sale della comunità”, come oggi sono definite le ex sale parrocchiali che attualmente sono crica 650. Di queste un centinaio sono già state convertite al nuovo sistema, mentre 250-270 stanno per effettuare il passaggio. E le altre? La cifra necessaria per la trasformazione non è di poco conto: dai 40 ai 60 mila euro come minimo. Anche di questo si parlerà al “tavolo di crisi”, dove qualcuno dovrebbe far presente quel che succede nella stanza accanto, ovvero in Francia, dove le “sale rurali”, così Oltralpe si chiamano quelle dei piccoli centri, ricevono dallo Stato un contributo fino al 90 per cento del costo totale per il passaggio al digitale.
Le cifre sono sempre aride e noiose, ma parlano chiaro e non ammettono
repliche. Soprattutto quando, come in questo caso, indicano che a pagare
più degli altri è proprio il cinema di casa nostra, ridotto a uno stato
comatoso, trincerato negli ultimi sussulti (non di orgoglio, ma di
sopravvivenza) di una commedia tra il faresesco e il brillante, che,
genere estremo e ultima linea di difesa, cerca di resistere a un assedio
sempre più stringente, stritolato da una crisi economica dilagante che
induce a tirare la cinghia, da una pirateria che la classe politica si
guarda bene dal contrastare (come invece è successo in Francia), dalla
mancanza di mercati esteri (se non si vince più un festival o se si è
scartati sistematicamente dagli Oscar non ci si può illudere di vendere i
nostri film su altre piazze), da ridotte disponibilità finanziarie (gli
incentivi statali scenderanno da 76 a 74 milioni di euro), da
interventi legislativi in grado di far fronte alla difficile situazione
(basti pensare al “tax-credit”, meccanismo virtuoso che consente di
detassare quel che si investe nel cinema e che il governo in carica non
ha rinnovato).
Il cinema, e quello italiano in prima fila, è un po' l'immagine di un
cagnolino che ruota su sé stesso cercando di mordersi la coda. Perché
gode pessima salute? Perché diminuiscono i consumi. E perché
diminuiscono? Per via della crisi economica, per disaffezione del
pubblico, per debolezza propria, perché ha perso smalto e vitalità,
perché non ha più motivi d'attrazione, per la pirateria, per l'uso
massiccio di altre tecnologie, ma anche perché ha mancato i grandi
appuntamenti con la Storia, perché è distratto, insensibile, assente
(non c'è stato un film che abbia saputo raccontare la fine delle
ideologie), perché non ha saputo farsi interprete del suo tempo, perché
ha perso le capacità profetiche che sanno far da guida e da stimolo al
grande immaginario collettivo, perché si è smarrito nella minuta morsa
del minimalismo.
Perché la scuola lo ignora e non lo coltiva (siamo
l'unico paese in Europa in cui non sia materia di insegnamento)
lasciandolo in balia dei mercanti nel tempio. La legge sull'insegnanento
del cinema nelle scuole la scrisse Giuseppe Bottai alla fine del
Ventennio. Ma poi arrivò il 25 luglio e da allora nessuno l'ha più
ripescata dal fondo del cassetto.
Enzo Natta
a cura di Paolo Perazzolo