18/06/2013
Il professore Massimo Reichlin
«Non si può pensare di interpretare questo tipo di interventi sulla memoria alla stregua di un’operazione di appendicite in cui il medico interviene chirurgicamente per eliminare dal paziente un pezzetto che non è fondamentale né fisiologicamente né dal punto di vista soggettivo della costruzione dell’identità personale e del senso di sé. Toccare i meccanismi della memoria è sempre molto delicato e apre dilemmi etici».
La “pillola dell’oblio”, insomma, per Massimo Reichlin, docente di filosofia morale presso la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e autore, tra gli altri, del saggio Etica e neuroscienze, va maneggiata con molta cura.
Professore, è pericoloso manipolare la memoria?
«I rischi ovviamente ci sono. Prima però bisogna fare una premessa».
Prego.
«Ci sono teorie filosofiche che identificano in senso stretto la persona, o l’identità personale, con la continuità dei suoi vissuti, con la sua memoria. A mio avviso, però, sbagliano perché tendono a sottostimare il ruolo e la rilevanza che ha la dimensione corporea, che è comunque rilevante ai fini di ciò che noi siamo».
La prospettiva di resettare la parte “negativa” della memoria è allettante, non crede? Soprattutto per chi ha subito traumi da cui non riesce più a risollevarsi…
«Gli interrogativi etici sono tanti. È difficile ipotizzare una finalità totalmente benefica di questi interventi perché è vero che si tratta di inibire l’ansia e lo stress derivante dal ricordo di un evento specifico ma con grosse incognite. Bisogna chiedersi anzitutto quanto è selettivo l’intervento. È difficile, infatti, alterare alcuni meccanismi della memoria senza alterare anche i meccanismi più generali come quello della formazione delle nuove memorie. Se il prezzo da pagare per censurare uno stress derivante da un trauma o da un cattivo ricordo è quello di inibire la formazione successiva dei ricordi che contribuiscono a far crescere la nostra personalità e rendono la nostra vita bella e meritevole di essere vissuta questo sarebbe un prezzo troppo alto».
Sono più i rischi delle opportunità, quindi?
«Non direi. Certamente, non bisogna demonizzare questo tipo di ricerche ma è importante avere un atteggiamento di valutazione attenta e responsabile nei confronti della ricerca scientifica. Non credo si debba escludere a priori la possibilità che questi esperimenti possano condurre a risultati importanti. Qui però si tratta di intervenire sulla coscienza stessa della persona da cui dipende il senso del nostro stare al mondo. Quello che io faccio dipende molto da ciò che sono, dalla memoria, dall’identità. Quando questi tipi di ricerche investono questioni così decisive occorre fare molta attenzione e valutare attentamente i rischi. È necessario fare un bilanciamento tra i pericoli, che obiettivamente ci sono, e i benefici, in termini di riduzione del dolore e della sofferenza. Al momento, comunque, con questo genere di ricerche siamo ancora nell’ambito farmacologico e gli esperimenti hanno riguardato animali da laboratorio. Non siamo ancora arrivati al livello clinico».
Non c’è il pericolo che una pillola del genere possa essere considerata una scorciatoia rispetto al percorso di analisi e alle varie forme di psicoterapia?
«Sì, il rischio c’è e in linea di principio si dovrebbe stabilire una preferenza, una priorità per questo tipo di lavoro su di sé che consente non tanto di eliminare o rimuovere il dolore degli eventi traumatici e difficili che hanno segnato la nostra esistenza ma che permette un’elaborazione, di vivere insieme ad esso integrandolo in qualche modo e superandolo senza però dimenticare così da rendere il dolore vivibile e, per certi aspetti, fecondo e utile per la nostra personalità. Ciò non toglie che queste ricerche sono interessanti perché nella realtà ci sono purtroppo situazioni estreme dove le psicoterapie non riescono ad essere efficaci nel contrastare il dolore, la sofferenza, il disagio psicologico. È un po' l’eterna querelle tra la psicoterapia e l’intervento farmacologico il quale, soprattutto in casi psichiatrici, si rende inevitabile. L’ideale, anche in situazioni come queste, sarebbe poter intervenire con entrambi, l’analisi da un lato, e i farmaci dall’altro. Meglio se si tratta di farmaci che senza rimuovere tout court l’evento negativo consentano di attutirne l’impatto psicologico ed emotivo».
Antonio Sanfrancesco
a cura di Antonio Sanfrancesco