30/07/2012
Per portare a compimento la riforma
interna della Chiesa basterebbe
trarre le conseguenze pastorali, che
derivano dalle acquisizioni teologiche
del Concilio: 1) «spirito collegiale
» nel rapporto tra gerarchia e le altre
componenti ecclesiali; 2) rivalutazione
del ruolo proprio dei fedeli laici
e della «laicità»; 3) formazione dei
fedeli a una fede adulta.
1. «Spirito collegiale» nel rapporto
tra Gerarchia e le altre componenti
ecclesiali. Una prima conseguenza
delle acquisizioni teologiche del Concilio
è il superamento di ogni forma
di «clericalismo»: nella Chiesa non vi
sono cristiani di serie A (il clero) e di
serie B (i laici), ma «comune è la dignità
dei membri per la loro rigenerazione
in Cristo, comune la grazia dei
figli, comune la vocazione alla perfezione.
Nessuna ineguaglianza, quindi,
in Cristo e nella Chiesa per riguardo
alla razza o nazione, alla condizione
sociale o al sesso. Quantunque alcuni
per volontà di Cristo sono costituiti
dottori e dispensatori dei misteri e pastori
per gli altri, tuttavia vige fra tutti
una vera uguaglianza riguardo alla dignità
e all’azione comune a tutti i fedeli
nell’edificare il corpo di Cristo».
La gerarchia non è al di sopra, ma
all’interno del Popolo di Dio; l’autorità
nella Chiesa non è burocrazia o amministrazione,
ma è “servizio e testimonianza”.
Lo stesso primato del Papa
va visto insieme all’ufficio d’insegnare
che Cristo affida ai vescovi. Il
Successore di Pietro non è un semidio,
posto al di sopra della Chiesa, ma
è il «servo dei servi di Dio», all’interno
del corpo mistico di Cristo.
In quest’ottica di comunione Giovanni
Paolo II nell’enciclica Ut unum
sint invita i vescovi e i teologi al dialogo,
per «trovare una forma di esercizio
del primato che, pur non rinunciando
in nessun modo all’essenziale
della sua missione, si apra a una situazione
nuova», più conforme allo
«spirito collegiale» del Concilio. Questo
«spirito collegiale» va al di là della
collegialità in senso strettamente giuridico
e dovrebbe animare tutte le forme
di collaborazione e di partecipazione
nella vita della Chiesa.
Lo «spirito collegiale» rende fecondo
il rapporto dialettico tra obbedienza
e profezia, tra istituzione e carismi
che è costitutivo della Chiesa, la quale
– come insegna san Paolo – è edificata
«sopra il fondamento degli apostoli
e dei profeti» (Ef 2,20), cioè sull’istituzione
apostolica e sul carisma profetico.
Nessuno nella Chiesa può mettere
in dubbio l’obbedienza, di cui
Cristo è stato modello. Tuttavia,
lo stesso Spirito Santo che affida
alla gerarchia la missione di guidare,
dispensa pure tra i semplici
fedeli di ogni ordine i suoi doni
o carismi, utili al rinnovamento e
alla crescita della Chiesa, che vanno
riconosciuti e accolti con gratitudine.
L’obbedienza quindi
non esclude, ma postula il “dialogo intraecclesiale”
e lo “spirito collegiale”,
ai diversi livelli della vita comunitaria.
2. Rivalutazione del ruolo proprio
dei fedeli laici e della «laicità». Un’altra conseguenza pastorale delle acquisizioni
teologiche conciliari è la rivalutazione
del ruolo proprio dei fedeli
laici nella Chiesa e nel dialogo con il
mondo. In una Chiesa non più «società
perfetta», ma «popolo di Dio in
cammino nella storia», i fedeli laici
non sono più minorenni, né «preti
mancati», né delegati del clero, ma ricevono
direttamente da Cristo, nel
Battesimo e nella Confermazione, la
missione unica, propria di tutto il Popolo
di Dio, partecipando – nella loro
misura – dell’ufficio sacerdotale, profetico
e regale di Cristo.
È questa una «svolta» certamente significativa,
se si pensa al ruolo meramente
“passivo” che la teologia posttridentina
assegnava ai laici, quale è rimasto
consegnato nelle famose parole
di Pio X: «Solo nel corpo pastorale
risiedono il diritto e l’autorità necessari
per promuovere e dirigere tutti i
membri verso il fine della società.
Quanto alla moltitudine, essa non ha
altro diritto che quello di lasciarsi guidare
e, come docile gregge, seguire i
suoi pastori».
I fedeli laici, nel loro impegno temporale
– afferma ora il Concilio – godono,
invece, di una legittima autonomia:
«Dai sacerdoti i laici si aspettino
luce e forza spirituale. Non pensino
però che i loro pastori siano sempre
esperti a tal punto che a ogni nuovo
problema che sorge, anche a quelli
gravi, essi possano avere pronta una
soluzione concreta o che proprio a
questo li chiami la loro missione: assumano
invece essi, piuttosto, la propria
responsabilità, alla luce della sapienza
cristiana e facendo attenzione alla
dottrina del Magistero».
Nessuno, però, può presentare la
propria scelta come l’unica coerente
possibile. Infatti per il cristiano il pluralismo
delle opzioni temporali, anche
di quelle politiche, è legittimo e
normale, perché la mediazione culturale
e storica è sempre necessaria per
passare dai princìpi alle scelte operative,
che sono laiche e tali devono rimanere:
«Nelle situazioni concrete e tenendo
conto delle solidarietà vissute
da ciascuno, bisogna riconoscere una
legittima varietà di opzioni possibili.
Una medesima fede cristiana può condurre
a impegni diversi».
3. La formazione dei fedeli a una
fede adulta. A questo punto è chiaro
che, per portare a compimento la riforma
voluta dal Concilio, s’impone
uno sforzo formativo straordinario
sul piano della maturazione della fede.
È questa la conseguenza pastorale
più importante dei «balzi in avanti»
sul piano teologico. Infatti, solo da
una “fede matura” può derivare nella
Chiesa la ripresa di spiritualità di cui
ha bisogno per portare a termine il
suo necessario rinnovamento interno.
La ripresa – insiste sempre il Concilio
– troverà il suo alimento soprattutto
nella riforma liturgica e nella
pratica della lectio divina.
Nello stesso tempo, la formazione a
una fede matura esige però un’adeguata
preparazione teologica. Prima
del Vaticano II, si confrontavano due
diversi modi d’intendere la teologia.
Il primo, di tipo tradizionale, si preoccupava
soprattutto di difendere la verità
dogmatica, era quindi di natura
prevalentemente apologetica; il secondo,
invece, ispirato a una concezione
rinnovata della teologia, si
preoccupava soprattutto di rendere
le Verità rivelate più comprensibili e
assimilabili dalla cultura contemporanea,
prendendo atto che nel corso
dei secoli la conoscenza della Verità
cristiana è venuta crescendo anche attraverso
il confronto con le diverse
culture e con il progredire della storia:
«Cresce infatti la comprensione,
tanto delle cose quanto delle parole
trasmesse, sia con la riflessione e lo
studio dei credenti (...), sia con l’esperienza
data da una più profonda intelligenza
delle cose spirituali, sia per la
predicazione di coloro i quali con la
successione episcopale hanno ricevuto
un carisma sicuro di verità».
Il concilio Vaticano II ha preferito
chiaramente questa concezione rinnovata
di teologia, in quanto essa segue
il modo stesso scelto da Dio per rivelarsi
all’umanità. Tutta la Storia della
Salvezza insegna che la Verità rivelata
diviene accessibile all’intelligenza e
alla coscienza umana attraverso le mediazioni
storiche e culturali.
Pertanto, una seria formazione alla
fede si dovrà fondare, oltre che sulla
meditazione e contemplazione della
Parola di Dio, anche sullo studio e
sull’approfondimento della teologia
rinnovata promossa dal Concilio.
Bartolomeo Sorge