13/07/2012
La forza degli stereotipi
L’opinione pubblica condivide una
gran copia di stereotipi negativi sulla
malattia mentale: “Questi soggetti sono
pericolosi”, “Loro non possono vivere
da soli”, “Non possono vivere tra
noi”, “Devono essere tenuti lontano”,
“Non vi è cura per i loro problemi”.
Da tali stereotipi derivano delle convinzioni
pessimistiche e non aderenti
alla realtà che, in ultima analisi, portano
all’effettiva discriminazione. I datori
di lavoro, in genere, non assumono
persone con una storia di ospedalizzazione
psichiatrica; gli affittuari
prediligono soggetti “sani di mente”
cui affidare le loro proprietà; i vicini
sono spaventati se, accanto alla loro
abitazione, si trasferisce un malato
mentale. Tali convinzioni tendono a
essere molto radicate nella nostra società,
al punto da coinvolgere non solo
la popolazione generale ma anche
gli stessi professionisti della patologia
mentale. A scopo esemplificativo, potrebbe
essere utile confrontare il decorso
di due patologie croniche, una
psichica e un’altra organica.
A - Nel primo caso esaminiamo la
storia del signor Giovanni, affetto da
schizofrenia. Egli ha ora 31 anni.
L’esordio della patologia psichiatrica
si è avuto a 19 anni. Da allora il signor
Giovanni è andato incontro a due
ospedalizzazioni durante acuzie psicotiche.
Attualmente si reca mensilmente
dal suo psichiatra curante e, grazie
al supporto farmacologico e psicologico,
si trova in una condizione di buon
compenso psicofisico, che gli consente
di lavorare a tempo pieno come
commesso. L’indipendenza economica
gli ha permesso di trovare un alloggio
indipendente nel quartiere dove
è nato e vissuto. Ciò gli consente di intrattenere
relazioni amicali con persone
che conosce da diversi anni e che
frequenta regolarmente.
Una terza riacutizzazione dei sintomi
porta Giovanni a un nuovo ricovero.
Tale evento induce lo psichiatra
curante e i familiari a ritenerlo troppo
vulnerabile e non adatto a una vita
autonoma. D’altro canto, sia il suo datore
di lavoro sia il suo affittuario sono
spaventati da questo evento. Alla fine
viene deciso che, per tutelare il paziente,
sia necessaria una sua istituzionalizzazione,
in una struttura comunitaria
del dipartimento di Salute Mentale,
con conseguente perdita dell’autonomia
lavorativa e abitativa e allontanamento
dagli amici.
B - Nel secondo caso prendiamo in
considerazione un individuo affetto
da diabete mellito che chiameremo
Carlo. Egli è affetto da una patologia
che ha esordito all’età di 18 anni. Da
allora il paziente ha dovuto modificare
abitudini di vita e sottoporsi a controlli
medici regolari. Nonostante
queste limitazioni e l’onere di una terapia
farmacologica complessa, è riuscito
a costruirsi una vita indipendente
e completa dal punto di vista economico,
abitativo e relazionale. A 34 anni,
un episodio di scompenso glicemico
acuto lo costringe a un’ospedalizzazione.
Dimesso, né l’internista curante
né i familiari sono preoccupati della
capacità del signor Carlo di riprendere
in tutto e per tutto le attività della
vita quotidiana.
Possiamo osservare che, dopo il ricovero
ospedaliero, il signor Giovanni
ha perso il lavoro, la casa e gli amici,
mentre la situazione del signor Carlo
è rimasta sostanzialmente immutata.
Qual è la differenza? Entrambe le
patologie hanno eziologia biologica,
sono croniche e hanno effetti pervasivi
su molti ambiti di vita. La differenza
sembra risiedere, al contrario, nelle
reazioni della rete di supporto di
ciascuno dei due pazienti.
Flaminia Alimonti, Luigi Guerriero, Luigi Janiri