16/08/2010
Una delle relatrici al convegno di Trevi, chiamata a dare un po' il "colore" all'incontro con una relazione su
"Il senso umano: cuore della bioetica", è un medico,
suor Rosa Alba Martino, religiosa dell’Istituto Figlie di San
Paolo. Suor Rosa Alba, specializzata in Igiene e Medicina preventiva e in Bioetica, è attualmente Dirigente Medico presso la Direzione Sanitaria dell’Ospedale Regina Apostolorum di Albano Laziale (Roma) con la qualifica di Dirigente Medico di Direzione Sanitaria. A lei abbiamo rivolto alcune domande.
La prima parte del convegno è intitolata “Il tempo dell’attesa”. Cosa significa "attendere"?
«L’etimologia del verbo ci aiuta comprendere il profondo significato dell’ “attendere”: tendere verso qualcuno, tendere verso qualcosa. La vita di ogni uomo e donna, fin dal suo nascere e fino al suo naturale morire, è caratterizzata dall’attesa di qualcuno, di qualcosa: si attende di diventare adulti, di amare, di realizzare la propria vita, di “diventare qualcuno”, si attende il giorno del matrimonio, si attendono i figli, si attende di soffrire, si attende di morire… L’attesa si coniuga con la speranza: chi sa attendere sa anche sperare in qualche cosa di migliore per sé e per gli altri. Altre compagne di viaggio di chi sa attendere sono l’ascolto di se stessi, degli altri, della natura…, di Dio; la gioia per l’attesa di qualcuno o qualcosa che si ama. Chi non ha la capacità di attendere non ha la capacità di vivere, di amare, di soffrire, di pregare…».
Ammesso che si possa generalizzare, secondo lei l’uomo di oggi ha ancora la cognizione interiore dell’attesa? E’, cioè, cambiato qualcosa in questi ultimi decenni nell’uomo quanto all’attendere?
«L’uomo di oggi ha ancora la cognizione interiore dell’attesa, ma il mondo che lo circonda, lo sviluppo delle tecnologie, il progresso dei mezzi di comunicazione sociale, il ritmo frenetico che avvolge le sue giornate, lo portano a non volere ed a non poter “attendere più”. Senza generalizzare, ciò che conta, quindi, per l’uomo di oggi, non è tanto il “tutto”, ma il “subito”: subito soddisfare un desiderio, subito comunicare, subito concludere un affare… Solo il “subito” ha il “diritto di cittadinanza” nella mente e nel cuore dell’uomo di oggi in un mondo globalizzato, dove siamo vicini per la veloce capacità di comunicare da una parte all’altra della terra, ma distanti dal nostro “prossimo”, da chi ci sta accanto…, perché non si ha il tempo, quindi la pazienza dell’attesa, per dialogare, per conoscere, per arricchirci di ciò che l’altra persona ha da donarci».
Alcune esperienze estreme, come la maternità surrogata o l’eutanasia che in molti paesi sono ormai autorizzati dalla legge, cosa possono dirci sulla dimensione dell’attesa?
«Direi che entrambi queste esperienze “estreme” ci dicono molto sulla dimensione della non attesa che impoverisce la vita di ogni uomo e donna. Il figlio ad ogni costo, la morte come processo più veloce e addirittura immediato rispetto a quello proprio di una malattia, ci scaraventano in un mondo in cui non si vive più la dimensione del “dono”, della gratuità, della volontà di Dio… Ma tutto ciò che si desidera deve essere realizzato, anche il modo, il tempo, il contesto in cui concludere la propria vita…».
Cosa deve fare la bioetica per essere realmente “umana”?
«Deve semplicemente essere “se stessa”, cioè essere fedele al motivo per cui, quasi 40 anni fa, è nata: una disciplina a servizio della vita umana e dei valori che la caratterizzano dal suo nascere fino al suo naturale termine. E’ questa sua “identità” deve essere ancora più fortemente evidente nel mondo di oggi in cui la bioetica è passata da disciplina di frontiera, sconosciuta ai più, poco frequentata anche dagli stessi specialisti, a una disciplina diffusa. E’ entrata nelle università con cattedre specifiche, nei tribunali e negli ospedali, nei parlamenti e, infine, ha preso la scena di televisioni e giornali, raggiungendo un largo pubblico e legittimandosi pienamente nell’orizzonte culturale della nostra epoca. Sappiamo che il suo metro di giudizio non è tanto la scienza medica, lo sviluppo tecnologico, ma la vita e la dignità dell’uomo, il valore della persona umana in quanto tale che non dipende da origini, pensieri, comportamenti, ecc. ma dalla legge naturale. Un essere umano ha una sua dignità propriamente “umana” per il solo fatto di essere persona. Ogni vita umana vale sempre e comunque. E’ lecito solo e tutto ciò che difende, guarisce, protegge, sviluppa, promuove e rispetta questa vita umana dal concepimento alla morte naturale. Ecco perché possiamo dire che la bioetica è realmente “umana”».
Perché se tutti affermano di “difendere l’uomo”, esistono visioni diverse sulla bioetica?
«Il progresso delle bio-tecnologie e delle scienze biomediche si fa affermando con sempre più “aggressività” nella nostra cultura che diventa, a sua volta, sempre più multiculturale e, paradossalmente, sempre meno universale. Il multiculturalismo è diventato sinonimo di relativismo, quasi che ogni cultura, ogni valore, ogni stile di vita debbano essere considerati sullo stesso piano; in altri casi la pluralità delle culture viene usata come una sorta di arma ideologica per gettare discredito sia sulla tematica dell’universalità, sia, forse ancor più, su quella dell’identità culturale, quasi che nell’epoca della globalizzazione tali tematiche siano declinabili soltanto come esclusione dell’”altro” o come imposizione all’”altro” di parametri non suoi. Lo sviluppo della società globale, avvicinando tra loro le diverse culture, mostra inevitabilmente anche i diversi modi in cui le diverse culture concepiscono le questioni relative al nascere e al morire, alla salute e alla malattia, al benessere e alla sofferenza. E non dimentichiamo che il pluralismo estremo che intende lasciare all’arbitrio di ciascuno popolo o cultura le scelte morali è un fattore a servizio dei centri di potere economici, politici, scientifici, i quali possono maggiormente percorrere indisturbati le loro logiche di potere e di profitto quanto più nella varie società si diffonde l’idea che in materia morale non esiste nessuna verità. E allora, ecco, la pressante necessità che nel dibattito sul multiculturalismo si riproponga il problema dell’”umano” quale origine e orizzonte dei nostri discorsi e quale unica possibilità di conciliazione delle diverse prospettive. A questo livello infatti l’esigenza di orientamenti comuni, non sincretistici, bensì orientati in senso universalistico, risulta ancora più urgente, proprio perché ci rendiamo conto che ne va in primo luogo del senso stesso della nostra umanità».
La professione medica sta cambiando in concomitanza all’evolversi della tecnica? Deve a suo avviso mutare il ruolo e la responsabilità del personale medico di fronte alle questioni che la tecnica contribuisce a suscitare?
«La medicina contemporanea, allontanandosi dai riti magico-religiosi che l’hanno caratterizzata ed influenzata fino ad un recente passato, è diventata scienza, imperfetta, ma scienza. Ciò ha comportato una certa “autocrazia” della classe medica, non tanto come “potere medico”, ma in quanto orgogliosa autosufficienza e onnipotenza della tecnologia incurante dei valori etici della persona. Ed ecco che bisogna recuperare, per dare più “luce” e credibilità al ruolo e alla responsabilità del personale medico, il valore dell’umiltà, il riconoscersi per quello che si è: degli uomini e donne con una acquisita professionalità a servizio della vita di chi si affida alle proprie cure, svolgendo il ruolo di “custodi” e non di “padroni”. Umiltà che è relazione, accoglienza, rispetto, amore, compassione. E mi piace concludere con una frase di Gabriel Garcìa Màrquez, esponente del realismo magico che, nell’imminenza della sua morte, scriveva: "Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare un altro uomo dall’alto, soltanto quando deve aiutarlo ad alzarsi"».
Dossier a cura di Stefano Stimamiglio