Biotestamento, ad aprile la legge

Sarà approvata il prossimo mese la legge sulle "Dichiarazioni anticipate di trattamento" (Dat). Ecco quello che c'è da sapere.

La questione

21/03/2011

E' attualmente in discussione alla Camera dei deputati il disegno di legge (si può trovare il PDF negli allegati di questo dossier) sulle Disposizioni anticipate di Trattamento (DAT), già approvato nel marzo 2009 in prima lettura al Senato. Il presente dossier cerca di fare il punto sulla situazione.



L'articolo 32 della Costituzione italiana prevede che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». In altre parole: qualsiasi cura a cui siamo sottoposti dev'essere preventivamente concordata da noi con il medico curante. Dunque, a meno che non siano obbligatorie per legge (ad esempio in tema di vaccinazioni infantili), le cure possono al limite anche essere rifiutate, anche quando questa scelta può portare alla morte.

Cosa succede, però, se, per malattia o per incidente, si perde la coscienza in modo permanente e non si può più decidere (e comunicare ai medici) a quali trattamenti, magari anche molto "invasivi", sottoporsi? Chi decide per me? Il medico, i familiari, qualche frase che ho buttato là in una discussione occasionale?

Finora, almeno fino a quando le tecniche mediche non erano a tal punto sviluppate da salvare situazioni un tempo fatali, la natura faceva il suo corso e, salvo il tentativo di fare comunque il possibile da parte dei medici, il problema non si poneva: la persona infatti moriva. Il medico, poi, era un tempo una figura "amica" del paziente e, se a volte magari scadeva in una sorta di paternalismo un po' calato dall'alto, ciò non toglie che per le sue specifiche competenze, per la generale ignoranza in materia della gente comune e per una grande e diffusa fiducia verso le istituzioni (e il dottore lo era), egli rappresentava la persona più giusta per consigliare e scegliere quella che, a suo modo di vedere, era la cura più adatta. A questo si aggiunga che un tempo non erano molte le cause giudiziarie per colpa medica, al contrario di oggi che sono molto più frequenti. Questo fatto provoca ovviamente nei sanitari un desiderio di maggior cautela e protezione giuridica in caso di decisioni gravi da prendere.

La situazione evidentemente è cambiata: sempre più spesso il progresso della tecnica permette a una persona, attraverso strumenti sofisticatissimi, di sopravvivere in caso di incidente grave. Anche se spesso in condizioni molto diverse da quelle di cui si è goduto prima della malattia: è il caso, ad esempio, del  cosiddetto "stato vegetativo permanente", dove la persona, perdute (almeno apparentemente) le funzioni cognitive che le permettono un contatto con il mondo esterno, magari per un incidente stradale o un aneurisma, conserva però integre tutte le funzioni vitali, che per continuare a funzionare devono però essere aiutate da strumentazioni che permettono l'alimentazione e la respirazione artificiale.

Le domande che sorgono allora sono le seguenti: è vita degna questa? O, soprattutto se si adotta un certo riduzionismo antropologico («è uomo solo chi riesce a comunicare con l'esterno»), ci troviamo in questi casi in un terzo ordine di status, quasi in mezzo al guado (una specie di terra franca, insomma) fra una "vita piena" e una "morte definitiva" e, dunque, si può fare quello che si vuole? E poi: chi può decidere se porre fine a un'esistenza di tal genere? La società, e per essa lo Stato, o il singolo cittadino, con le sue idee e la sua visione di vita?

Insomma, che fare in questi frangenti? In quale modo evitare il cosiddetto (e disumano, rifiutato da tutti laici e cattolici) "accanimento terapeutico" e dare dignità, allo stesso tempo, alla vita fino al suo ultimo istante, assumendo tutte le pratiche che una buona medicina permette (fra cui, soprattutto, le cure palliative)? E' possibile, poi, fare una legge per regolare questa materia, considerando che queste situazioni variano grandemente da caso a caso?

A tale quesione si sovrappone (ma non dovrebbe visto che la fattispecie è completamente diversa) quella dell'eutanasia, la possibilità, cioè, di dare deliberatamente la morte a un soggetto che, nel pieno possesso delle sue facoltà, lo richieda per il suo stato di estrema debilitazione morale, psicolgica e fisica dovuta, ad esempio, a una grave malattia. Se alcuni Stati la ammettono (la Svizzera o gli Stati del Benelux), altri, come l'Italia lo puniscono penalmente e non è minimamente a rischio di cambiare orientamento. Così recita, ed è applicabile a tutt'oggi, l'articolo 580 del Codice penale ("Istigazione o aiuto al suicidio"): «Chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni».

La questione sul testamento biologico, in realtà, è solo uno dei settori di quella disciplina che si chiama "bioetica" e che ha a che fare, necessariamente, con la "biopolitica", cioè con le decisioni dello Stato di normare o meno una materia "eticamente sensibile": l'abbiamo vista ad esempio, mutatis mutandis, con la legge 40 (procreazione assistita) e con l'aborto (il feto è "vita" o "non ancora vita"?).

Ne caso del biotestamento il rischio, richiamato da molti, è quello di aprire le porte, permettendo che si possa autorizzare nelle dichiarazioni anticipate di trattamento di "staccare la spina" o, ancor peggio, di permettere l'eutanasia, alla creazione di una classe di persone diverse, la cui vita vale meno semplicemente perchè volge al termine o perchè si trova in uno stato di grande sofferenza e prostrazione. Questo, per inciso, potrebbe portare, in nome della riduzione delle spese mediche, a far sentire queste persone di peso, inutili. E quindi a chiedere di essere "soppresse". Ma un uomo non rappresenta un valore "a prescindere" dalla sua condizione? E, per chi si professa cristiano, non è forse creata a immagine di Dio?

Forse, al di là di ogni legge o norma che regoli la questione, è anche da ripensare a partire dai fondamenti la dimensione umana della cura delle persone malate. Esistono aspetti medici, che indubbiamente devono essere affrontati nella loro complessità, ma ne esistono di altrettanto importanti che rispondono alle esigenze imprescindibili di ogni essere umano: quello di essere amato nella sua dimensione di sofferenza, di minorità, di morte che si avvicina. In questo molto possono i medici ma di decisiva importanza sono i familiari, i cappellani ospedalieri, le organizzazione di volontariato, ma anche e soprattutto ciascuno di noi che si prenda a cuore una persona, vicina o lontana.

Dossier a cura di Stefano Stimamiglio
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