Aspettando gli Stati Uniti d'Europa

Rilancio della crescita e degli investimenti, creazione di posti di lavoro. Ma anche più unità politica. Il punto alla vigilia del prossimo vertice Ue del 28-29 giugno.

Si scrive euro, non si legge marco

24/06/2012

Il dibattito di questi mesi intorno alla crisi dell’Euro ha immaginato possibili e imminenti uscite dall’euro senza tener conto di un piccolo particolare (i Trattati europei prevedono l ‘ingresso nel sistema euro, ma non l’uscita) e senza contare che le Banche centrali di Grecia o Italia dovrebbero tornare a battere moneta, attività abbandonata da 12 anni.

Analoga leggerezza è stata usata per il voto greco. I vincitori della destra di Nuova Democrazia favorevoli all’euro contro la nuova formazione Syriza per il ritorno alla dracma. Peccato che Syriza non abbia mai proposto l’uscita dall’euro, ma la necessità di rivedere il memorandum firmato con l’Ue, chiedendo flessibilità e tempo, esattamente quanto ha fatto il nuovo Governo di coalizione appena formato. Ma se il dibattito si avvelena fuori misura, qual è il nodo reale che riduce oggi il fiato dell’Europa? 

L’Unione non ha creato la crisi, nata soprattutto negli Stati Uniti con i prestiti irresponsabili erogati sulla bolla immobiliare. L’Europa ha subito la crisi e ha reagito utilizzando gli strumenti di protezione sociale di cui è dotata per ridurne i costi sociali. In una fase di crisi si riduce la raccolta fiscale e aumenta la spesa sociale, in modo automatico (sussidi, cassa integrazione etc). Per sostenerla. i Paesi europei hanno acceso nuovi prestiti: la fase di ripresa che segue le crisi, stimolata dagli interventi di sostegno al reddito e alla domanda, avrebbe comportato ripresa dell’occupazione e della raccolta fiscale e restituzione dei debiti creati nel frattempo.  

Un processo del tutto sensato, che avrebbe probabilmente comportato tempi più rapidi di uscita della crisi rispetto a quelli Usa, se i Paesi europei si fossero mostrati solidali e, soprattutto, politicamente solidi. Il Governo tedesco però ha rotto l’unità affermando che non avrebbe sostenuto le difficoltà finanziarie dei Paesi più deboli. Gli speculatori hanno immediatamente attaccato i Paesi considerati più vulnerabili: la Grecia per i conti falsi (creati proprio dal governo di Nuova Democrazia e denunciati da Papandreu nel 2009 appena divenuto premier), l’Irlanda per la debolezza del sistema bancario, la Spagna per una bolla immobiliare e finanziaria analoga a quella Usa e l’Italia per la non credibilità del Governo guidato da Berlusconi. 

La fama negativa, amplificata ad arte, scoraggiava i risparmiatori, i Governi erano costretti a promettere tassi di interesse sempre più alti (ecco l’aumento dello spread) e i titoli venivano acquistati proprio dagli speculatori che ne sconsigliavano pubblicamente l’acquisto mentre privatamente contavano proprio sulla solidarietà europea. I veti tedeschi non fanno che aumentare tempi e interessi, rendendo la speculazione sempre più remunerativa, perché – è ovvio - prima o poi l’Europa interverrà. 

Far aumentare ulteriormente la crisi greca o di altri Paesi o, addirittura, arrivare ad un’Europa in crisi e senza euro significherebbe determinare forti perdite di potere d’acquisto in tutta l’area, con conseguenze negative per tutti coloro che in Europa vendono i loro prodotti, Cina in testa, o le loro materie prime. Per non parlare dei danni che subirebbe la stessa Germania che all’Unione destina la metà delle proprie esportazioni. 

Sostenere il sistema euro significa allora mettersi nelle condizioni di pagare con credibilità i debiti contratti da parte di tutti i Paesi. Oggi questo significa dotarsi di strumenti istituzionali per farlo, senza dover costruire soluzioni ad hoc ogni volta che compare l’esigenza per ogni singolo paese. Farlo nel 2009, quando il Governo greco lanciò il primo appello, sarebbe costato intorno ai 40 miliardi di euro e avrebbe dato da parte dell’Europa un segnale di autorevolezza che avrebbe tolto spazio alle azioni speculative. Farlo oggi, come si sta effettivamente facendo, ha lasciato mani libere agli speculatori e costerà probabilmente 800 miliardi, alcune stime parlano addirittura di mille miliardi di euro.

La bandiera dell'Unione europea sventola sul Reichstag, a Berlino. Foto Ansa.
La bandiera dell'Unione europea sventola sul Reichstag, a Berlino. Foto Ansa.

Perché non si è fatto prima? A causa della resistenza di Angela Merkel che ha sempre rifiutato una solidarietà europea. La Cancelliera tedesca ha da due anni sistematicamente rifiutato una solidarietà con i Paesi europei in difficoltà motivando la sua posizione eticamente: le rigorose formiche tedesche non devono pagare per le cicale spendaccione dell’Europa meridionale che si sono indebitate. Più recentemente ha accettato un piano di aiuti ricordando in modo arrogante che se i mediterranei vorranno una mano dovranno sottoporsi a politiche di bilancio improntate al rigore e controllate dall’Europa. Sono nati così i diktat alla Grecia, che hanno imposto tagli alla spesa senza gradualità e hanno aggravato la situazione economica anziché migliorarla, col risultato di indebolire la credibilità dell’intero sistema Europa, offrendo ulteriore spazio agli speculatori.


La posizione della Merkel si fondava sulla presunta autorevolezza della Germania, Paese europeo con i migliori tassi di crescita, con le performance economiche tedesche a dare una legittimazione etica e politica alle posizioni del Governo tedesco. Peccato che la crescita tedesca derivi soprattutto dalle esportazioni verso le aree che oggi hanno i trend economici più dinamici: Cina e America Latina, che in questa particolare fase storica domandano i prodotti in cui la Germania è leader, cioè macchine industriali. Così, con la perdita di autorevolezza europea e la conseguente caduta dell’euro, la Germania trae vantaggio per le sue esportazioni, sostenendo grazie ad esse il proprio Pil che altrimenti non avrebbe avuto performances diverse da quelle della Francia e degli altri Paesi europei.

Si tratta di una posizione piuttosto trasparente che non per nulla ha prodotto un malcontento sempre maggiore da parte di tutti partner, culminato nel vertice del G20 che si è concluso con un documento in cui è del tutto evidente, al di là del linguaggio diplomatico, l’isolamento del leader tedesco, non sostenuto nemmeno più dalla Cina, l’unico Paese che sinora nel G20 le aveva mostrato solidarietà. La posizione di Angela Merkel si giustifica solo per ragioni elettorali, immaginando di interpretare la ‘pancia’ più emotiva del popolo tedesco per ottenere la rielezione. In realtà gli elettori tedeschi sembrano più europeisti di quanto non valuti il loro Capo del Governo. In tutte le elezioni regionali di questi due anni i partiti di governo hanno subito pesanti sconfitte e non sembra che un mostrarsi a braccia alzate per i goal che la nazionale tedesca infligge proprio alla Grecia possano rendere la Cancelliera più popolare. 

Che cosa occorre per uscire da questo stallo? Prima di tutto una istituzione in grado di intervenire automaticamente in caso di difficoltà per finanziare a sostenere i paesi membri. Dopo un primo tentativo con il Fondo di stabilità finanziaria europea, il meccanismo vedrà la luce al Consiglio Europeo del 28 29 giugno, ma occorre che venga finanziato e su questo non c’è ancora totale intesa.


Quindi occorre una intesa fiscale, per concertare le politiche di spesa in modo da consentire contributi convinti da parte di tutti al meccanismo di stabilità. Questo è l’unico punto su cui la Merkel ha ragione, ma è necessario che i punti di intesa del cosiddetto fiscal compact siano improntai allo sviluppo, alla ripresa di una domanda che crei lavoro per tutti, e non esclusivamente al contenimento della spesa pubblica in una logica miope di breve periodo che crea maggiori difficoltà anziché risolverle. In terzo luogo la tassa sulle transazioni finanziarie, la cosiddetta Tobin Tax, che può raccogliere molte risorse e raffreddare i movimenti speculativi. La si applichi anche se la Gran Bretagna non è d’accordo. Si guadagnerà in credibilità politica e si disporrà di risorse da spendere per la stabilità finanziaria, lo sviluppo e la solidarietà internazionale. 

Quarto ambito di intesa è l’emissione di Eurobond, titoli pubblici dell’Unione per finanziarne le spese, comprese quelle per garantire la stabilità finanziaria. Emetterli, ancora una volta, sarebbe segnale di solidità da parte dell’Unione e i mercati reagirebbero bene. La Merkel, ormai isolata, insiste nel suo veto, screditando con le sue parole insieme la proposta e la autorevolezza europea. Quinto spazio di intervento è la regolamentazione bancaria, che da nazionale diventi europea per dare uniformità alle possibilità di azione e comportamento degli attori bancari che operano sui mercati europei, evitando leggerezze, come è avvenuto in Spagna (ma anche in alcune banche regionali tedesche) , che indeboliscono non solo chi agisce in modo spregiudicato, ma l’intero sistema. 

Dal Consiglio Europeo di Bruxelles si attendono queste risposte. Fare i duri e non arrivare ad un accordo, o farlo puntando il dito contro le cicale, imponendo visioni retoriche e nazionali significherà rendere ancora più alto il costo che insieme dovremo pagare. Potrebbe anche capitare che la Grecia spazientita decida davvero di tornare alla dracma. Subirebbe una svalutazione pesantissima che renderebbe prodotti e servizi greci golosamente convenienti. Hotel e spiagge dell’Egeo si riempirebbero di turisti che porterebbero i dollari e gli euro che l’Europa oggi nega. Il Paese, che è piccolo e ha una fortissima vocazione turistica, in pochi anni si riprenderebbe, mentre l’Europa perderebbe ogni credibilità imboccando un vicolo cieco in cui il più forte subirà il danno maggiore. E’ uno scenario che gli elettori tedeschi sembrano avere già compreso. Speriamo convincano il loro Capo del Governo.

Riccardo Moro, economista, docente di Politiche dello sviluppo all'Università statale di Milano

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