04/11/2012
Militari italiani schierati in Afghanistan. Questa foto è di Nino Leto. Quella di copertina è dell'agenzia Ansa.
Scrivono. Di giorno, di notte, in ogni momento libero dai turni di guardia o dalle uscite in pattuglia. L’hanno fatto a lungo alla maniera antica, carta, penna e busta d’ordinanza. Da qualche tempo in qua, la faccenda s’è evoluta: un computer, un collegamento Wi-Fi, le dita veloci sulla tastiera, un clic e via. Quando va bene, grazie a Skype, si riesce a vedere anche il volto di una persona cara e, dietro, un angolo di casa.
L’Italia li ha spediti nel mondo; il mondo li tiene legati all’Italia sotto forma di lettera. Poco importa se, in realtà, si tratta di una e-mail o il post di un blog o, ancora, il contributo a un social network. Sempre sentimenti sono, e speranze, gioie, apprensioni. Queste testimonianze sono diventate un libro. Il cuore delle missioni di pace, s’intitola. È edito dalla San Paolo e da Scripta manent, è frutto della collaborazione fornita dagli Stati maggiori della Difesa, dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica oltre che dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, è introdotto dal giornalista Arrigo Levi, contiene una riflessione di monsignor Vincenzo Pelvi, arcivescovo ordinario militare.
Militari italiani schierati in Afghanistan. Foto di Nino Leto.
Il dibattito che anima Parlamento e società civile sulle missioni di
pace (e sui loro relativi costi) rimane fuori. Non c’è l’eco del
confronto tra quanti sostengono che la parola giusta da usare sia
“guerra” e quanti, invece, ritengono pienamente rispettato l’articolo 11
della Costituzione dal momento che l’Italia si muove sempre e comunque
nel contesto di alleanze sovrannazionali, dalla Nato in su. Nel
volume c’è, piuttosto, il diario minimo quotidiano di chi sa di lavorare
per la pace, lo sviluppo e la promozione dei diritti umani vestendo una
divisa e avendo fatto della difesa la propria professione. C’è il
legittimo orgoglio di chi contribuisce a far funzionare ospedali, a
garantire campagne di vaccinazione, ad aprire scuole, a gettare ponti, a
riparare strade, a tirar su case.
In 140 pagine si rivivono trent’anni esatti. Era, infatti, l’estate 1982
quando, a Beirut, le Forze armate italiane inaugurarono un nuovo capitolo
della loro storia, sotto l’egida dell’Onu. Da allora, i militari italiani
– prima di leva, poi professionisti – sono impegnati in vari Paesi.
Namibia, Kurdistan, Somalia, Mozambico, Bosnia, Albania, Macedonia,
Kosovo, Timor Est, Haiti. Quindi Afghanistan, Irak e ancora Libano. Sono
alcune delle nazioni scosse dalla violenza oppure reduci da sanguinosi
conflitti che hanno ospitato reparti italiani o che li ospitano tuttora.
Attualmente sono circa 6.700 i nostri militari attivi all’estero,
schierati in 27 tra Stati e aree del pianeta, Mediterraneo e Oceano
Indiano inclusi, la maggior parte in Afghanistan (4.000), Libano
(1.100) e Balcani (850).
Militari italiani schierati in Afghanistan. Posto medico avanzato. Foto di Nino Leto.
Le lettere dal fronte sono uno spaccato divita
quotidiana. «Dolcissimo amore mi manchi», scrive da Sarajevo, nella
seconda metà degli anni Novanta, Massimiliano Evangelisti, un artigliere
della Brigata Garibaldi: «Ti faccio una promessa: i soldi che sto
guadagnando qui li metterò da parte perché ti voglio sposare». «Ciao
fratellone», interviene Simone Piampiani, paracadutista della
Folgore:«Come sta la mia splendida nipotina? Spero bene. Quando sarà
grande avrò mille cose da raccontarle. Durante il tortuoso viaggio verso
Sarajevo non vedevo altro che morte e distruzione: case diroccate da
colpi di mitraglia, macchine completamente squarciate da chissà quale
mina, tutti quei vari e improvvisati cimiteri disseminati qua e
là...».
«Ciao Matteo, sono papà, ti scrivo da un Paese molto lontano che
si chiama Afghanistan», annota il sergente maggiore Rinaldo Logli. «Qui i
bambini non sono fortunati come te, nei loro sguardi si scorge una
sofferenza e una tristezza che fa male al cuore, ma se si guarda più
attentamente si scopre una velata felicità. Questa è la loro forza,
quella di sapersi accontentare di quello che possiedono, ti posso
garantire che basta davvero poco, una palla fatta di stracci, un
bastoncino di legno, un copertone di auto logoro, una
bicicletta sgangherata».
«Metto piede nell’avamposto più
rischioso dell’Afghanistan, Cop Snow», racconta a sua volta il caporal
maggiore Serafino Blanco,«un triangolo grande come un campo da
calcetto fra una strada nel deserto e il greto di un fiume ormai privo
di
acqua, un territorio surreale, silenzioso, dove tutto sembra in ordine, i
pastori e le loro greggi, gli asini, le moto, le macchine, i bambini a
piedi che ci osservano curiosi. E, invece, non è tutto così sereno: gli
insorti sono sulle montagne piene di caverne, pronti ad attaccare. Per
lavarsi ci si affida alle bottigliette d’acqua. Si mangia ciò che gli
elicotteri riescono a portare. Per i primi 15 giorni sempre fagioli e
tonno. Poi le cose migliorano, arrivano pasta, riso, Coca-Cola, yogurt,
insalata, pomodori, ananas, crocchette di pollo e birra, un miraggio! Il
caffè si vede ogni tre giorni».
Da sinistra: Andrea e Massimo Fogari.
Al fronte accade che s’incontrino anche
padre e figlio. Andrea Fogari è un tenente del 1° Reggimento artiglieria
da montagna di Fossano (Cuneo). Festeggerà il suo
ventisettesimo compleanno a Herat. È alla sua prima missione all’estero.
«Non è come mi aspettavo», confida a Famiglia Cristiana, «e non
potrebbe essere altrimenti. Anche se l’addestramento seguito in Italia è
adeguato, qui è tutto diverso. Il semplice fatto di essere a
stretto contatto con colleghi di altri reparti e di altre nazioni cambia
tutto. Il confronto ti arricchisce dal punto di vista professionale e
umano.Per non parlare di quando si ha a che fare con gli afghani, civili e
militari».
Prima il saluto militare e poi un abbraccio: ad Andrea capita
di incontrare suo papà, Massimo, generale di brigata
dell’Esercito, responsabile del settore comunicazione delle Forze armate,
tra le cui funzioni c’è anche quella di accompagnare i giornalisti
nei teatri operativi. Cosa si prova a vedere il proprio figlio in
missione? «Sembrerà strano», risponde il generale Massimo Fogari, «ma
vivendo uno a Roma e l’altro a Fossano, da quando è in Afghanistan lo vedo
più spesso di quando è in Italia. Scherzi a parte, c’è orgoglio misto a
comprensibile preoccupazione». «La prima volta che l’ho incontrato qua»,
dice Andrea, «mi ha fatto uno strano effetto, ci eravamo salutati due mesi
prima a casa, in vacanza. Ho scelto questa vita sapendo quanti sacrifici
comporti, ma anche quante soddisfazioni può regalare. Dopo sette anni in
divisa e un mese e mezzo di missione sento che non potrei fare
nient’altro».
Antonino Gianfriddo e Maria Martinelli.
Maria Martinelli e Antonino Gianfriddo sono due dei 1.500
alpini che si trovano in missione in Afghanistan con la Brigata
Taurinense. Da due anni sono marito e moglie. «È una sensazione
particolare», osserva Antonino. «In genere quando si parte la cosa più
difficile è salutare la moglie, nel nostro caso abbiamo saltato questo
passaggio». «Anche se in Italia abbiamo lasciato genitori, parenti,
amici...», aggiunge Maria.
Entrambi hanno da poco superato la trentina.
Anch’essi sono artiglieri di montagna, anch’essi sono di stanza a Fossano.
Maria è di Potenza. Antonino è nato e cresciuto a Modica (Ragusa). Lei
batte lui quattro missioni a tre. Sorridono, sebbene, precisino, non c’è
nessun derby di famiglia. «L’aspetto positivo, quando si è schierati nello
stesso posto durante lo stesso periodo, è che c’è minor apprensione. Si
sa dov’è l’altro e cosa sta facendo», conclude Maria.
Alberto Chiara