Campi nomadi, paradiso o inferno?

Famiglia Cristiana ha visitato un campo a Roma. Negli spazi attrezzati della capitale i Rom pagano luce, affitto e hanno la vigilanza. Però manca un progetto di integrazione.

«L'acqua che usiamo viene dal Tevere, è gialla, poi i vestiti puzzano e cadono i capelli...»

10/09/2010
Il campo nomadi di via Palmiro Togliatti, a Roma.
Il campo nomadi di via Palmiro Togliatti, a Roma.

Chiamiamoli Rom e non nomadi, questo potrebbe essere il primo passo per capirli, perché molti di loro sono nati in Italia, sono cittadini italiani, hanno fatto il servizio militare nel nostro Paese e quindi difficilmente potrebbero essere “rispediti nel loro Paese”, perché già ci si trovano. La possibilità di ottenere una casa popolare è il sogno di molti Rom che vivono in roulotte o baracca per necessità.

    «Quando entrai nel campo Casilino 700, una città fantasma di rifugiati rom, di baracche e roulotte, ho trovato il Kalisferia sulla terra», afferma Ronald Lee, giornalista di etnia rom e docente universitario in Canada raccontando una sua visita al campo romano nel 2000. Oggi questo campo non esiste più, ma non mancano altri "kalisferia": così i Rom chiamano il purgatorio, un posto fra la terra e il Paradiso, dove le anime dei bambini non battezzati, i suicidi e coloro che hanno commesso crimini contro Dio sono condannati a vivere. È un luogo triste e terribile, dove regna l'oscurità, abitato da creature orribili che tormentano coloro i quali sono condannati a vivervi finché non riceveranno la grazia di Dio per entrare nel Raiyo, il paradiso dei Rom.

    Sul campo Casilino 700 sono state spese molte parole, ma più chiaramente parlano le foto. Ad esempio quelle di Stefano Montesi, fotografo romano che ha pubblicato un libro, “Terre sospese”, edito da Prospettiva. La vita dei Rom viene illustrata nella loro straordinaria intimità: dal funerale del bambino appena nato, al matrimonio secondo tradizione, dalle danze tribali alle difficoltà nell'attraversamento delle strade per via degli allagamenti. Tra le fotografie che toccano di più quella di una madre giovanissima, quasi una bambina, che allatta seduta la sua piccola, completamente nuda. Lo sfondo è quello di roulotte scassate, di catini per il bucato e bidoni per l'acqua, ma quello che spicca è soprattutto lo sguardo della bambina, i suoi occhi scuri, il suo dolore silenzioso.

    Nei campi attrezzati creati a Roma - dal 2000, anno del Giubileo, in poi - i Rom pagano la luce e l'affitto e hanno anche un posto fisso di vigilanza dove vengono controllate le persone che entrano ed escono. “Se si viene a visitare qualcuno si lascia un documento e bisogna spiegare il motivo della visita” spiega Montesi. “Una sorta di campo sfollati permanente con una miriade di telecamere puntate dappertutto”. Certo c'è l'acqua, l'elettricità, l'asfalto per terra. Ma al di là della scolarizzazione (non facile, perché spesso questi campi sono in estrema periferia, lontani dalle scuole) manca un progetto serio di integrazione.

    Siamo stati a visitare un campo della Capitale. Sonia, con le sue due bambine, Erica e Giulia, vive qui. La più piccola – mi racconta - si sveglia alle 6 per vedere i cartoni animati. Dopo le 7 infatti, al campo, tolgono la corrente. Giulia, 5 anni, è molto sveglia e parla benissimo italiano visto che è nata qui e fa l'asilo, mentre i genitori sono romeni, della Transilvania. A Sonia manca la neve delle sue montagne e gli altri figli, due gemelli di 8 anni, rimasti con i nonni.

    Al campo, però non si sta male, come mi conferma poi a pranzo Mauro il marito, un diploma di saldatore e 8 anni di esperienza nel suo Paese più alcuni anni a Roma, ma poi ha lasciato perché lo sfruttavano. Dell'acqua che usano si lamenta Sonia, “viene dal Tevere, è gialla, e poi i vestiti che ci laviamo puzzano e cadono i capelli...” Il pranzo scorre in allegria e calore ma subito dopo Giulia si alza per fare i compiti delle vacanze, aspettando il ritorno a scuola e l'arrivo dello scuola bus al campo.

Dossier a cura di Gabriele Salari
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