10/09/2010
Il fotografo Gianni Berengo Gardin.
Arriva con l'immancabile gilè da fotografo, pieno di tasche, e cerca una penna per appuntarsi il titolo di un libro che l'ha colpito in una libreria di Assisi, città dove ha incontrato il pubblico che è venuto ad ascoltarlo sul tema “l'immagine come comunicazione”.
Gianni Berengo Gardin, tra i più noti fotografi italiani, 79 anni, è ancora un uomo molto curioso e innamorato della vita. Ha iniziato nel 1954 a occuparsi di fotografia e nel 1965 lavorava per Il Mondo di Mario Pannunzio.
Iniziò allora a raccontare gli italiani, entrando con la sua macchina fotografica nelle case della gente e raccontando quindi la nostra vita dall'interno. Quindici anni fa ha voluto estendere questo lavoro alle case di italiani e non che vivono in roulotte e baracche alle periferie delle nostre città: gli zingari.
Ha passato quindi un mese e mezzo in 4 campi nomadi di Firenze e un tempo imprecisato in giro tra campi nomadi di tutta Italia, dal Trentino alla Sicilia. Significativo il titolo del libro che ne è uscito, con il testo del Premio Nobel Gunther Grass, La Disperata Allegria.
Berengo Gardin, l'ha colpita più la disperazione o l'allegria?
Sicuramente di più le carognate che vengono fatte da noi contro di loro. In tutti i Paesi europei sono accolti meglio che in Italia.
Già, lo hanno detto anche gli zingari che stanno arrivando ora dalla Francia, ma resta il fatto che li hanno mandati via. Cosa dovrebbe fare secondo lei il sindaco di una città italiana oggi?
Quello che fece il sindaco di Palermo anni fa, diede loro un terreno, mattoni e cemento per farsi delle case e ora quelle persone vivono in case in muratura e lavorano.
Case, lavoro? Ma non sono i nomadi che rifiutano il lavoro?
Questo è uno dei pregiudizi più diffusi, ma per la stragrande maggioranza si spostano perché vengono respinti ovunque si fermano e per lavorare fanno fatica perché se dichiarano la loro identità nessuno li vuole. Mi è capitato di fotografare delle donne nei campi nomadi di Reggio Emilia che si rifiutavano di comparire nelle foto perché avevano paura che le avrebbero riconosciute le famiglie dove lavorano come donne di servizio e magari le avrebbero cacciate.
A Firenze molti zingari lavorano per il Comune nella nettezza urbana e nel giardinaggio ma nessuno lo sa.
Ma i lavori tradizionali li hanno abbandonati?
No. A Padova sono meccanici ma anche straordinari allevatori di cavalli. In Trentino hanno fatto fortuna come musicisti. Per prenotare un'orchestrina zigana perché suoni a un matrimonio o ad una festa campestre bisogna prenotare tre mesi prima.
Non facevano una volta anche i calderari, lavorando il rame?
Sì, ma una legge yugoslava vietava loro questa attività e l'Italia per le leggi della reciprocità ha una legge simile che non è mai stata abrogata. E dire che molti di loro sono italiani a tutti gli effetti ed hanno anche combattuto con noi durante la Resistenza.
Quindi lavorano, non sono ladri, e magari sono anche puliti...
Solo una minoranza ruba, quando viene data loro la possibilità di un lavoro decente e una casa (come accade anche a Bologna, ad esempio) non succede percentualmente più che nel resto della popolazione. Dopo la guerra nell'ex Yugoslavia sono arrivati nei campi nomadi tanti criminali che non sono Rom ed hanno danneggiato la loro immagine. Infine, sì, sono pulitissimi. Anch'io ero pieno di pregiudizi prima, ma poi ho visto che hanno la mania di lavare i bambini due volte al giorno. Esagerati.
Gli zingari vengono criticati spesso sul piano morale, fanno lavorare i bambini invece di mandarli a scuola...
A dir la verità sono di un moralismo impressionante. Devono arrivare vergini al matrimonio e per questo si sposano giovanissimi e i matrimoni sono combinati dai genitori. Farsi amare dall'altro è qualcosa che devono costruire poi dopo nella relazione.
Dossier a cura di Gabriele Salari