04/05/2012
Il Custode di Terra Santa, padre Giambattista Pizzaballa (al centro) durante una celebrazione nella chiesa di Santa Caterina a Betlemme (foto Ansa).
«Non possiamo pensare di essere sotto i bombardamenti, ma nemmeno possiamo dirci che tutto va bene»: così padre Giambattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, a Bruxelles, nella sede del Parlamento europeo, durante il seminario Cristiani nel mondo arabo: un anno dalla primavera araba, organizzato dalla Comece (Conferenza degli Episcopati della Comunità Europea), insieme ai Gruppi europarlamentari conservatore e riformista (ECR) e dei Popolari europei (EPP).
In realtà, i cristiani un po' sotto le bombe lo sono, visto che – secondo alcune stime - almeno 200 milioni nel mondo subiscono un qualche tipo di persecuzione. I cristiani sono vittime del 75% delle violenze antireligiose; i martiri sono calcolati in 105 mila l'anno, uno ogni 5 minuti. E non ci sono solo i massacri, ma anche l'impossibilità di esercitare liberamente il culto, gli arresti, il divieto di indossare segni della propria fede, la messa all'indice dei testi sacri, la confisca dei beni. In molti Paesi, soprattutto nel vicino Oriente e nel Nord Africa, i cristiani sono minoranza (in Terra Santa, per esempio, rappresentano l'1,5% della popolazione) e hanno vita dura. Basta qualche voce di conversione al cristianesimo (sempre vista come il frutto di un proselitismo interessato), per dar fuoco alle polveri.
Ed è... boom. Boom in Nigeria e Kenya: 21 morti a fine aprile 2012, per gli attacchi terroristici a due chiese, mentre la gente era riunita per partecipare alla messa. Boom ad Alessandria d'Egitto, a capodanno 2011: 21 morti e 8 feriti per l'esplosione di una bomba davanti a una chiesa copta. Boom in Iraq, 2.000 morti dalla caduta di Saddam nel 2003, tra cui 6 preti e un vescovo, e oltre 30 chiese colpite. Boom ad agosto 2008, nello Stato dell'Orissa, nell'India orientale: oltre 100 morti, più di 600 chiese distrutte, 4.000 persone costrette a fuggire dai loro villaggi. Un lungo bagno di sangue, con spesso l'impossibilità di risalire ai colpevoli. «Ci chiedono perché non abbiamo una milizia – mi disse una volta, sorridendo, monsignor Louis Sako, vescovo di Kirkuk, 250 chilometri a nord di Baghdad, in Iraq -. Perché non va con la natura del cristiano. A degli amici arabi che mi hanno regalato una spada, ho detto che per noi l'unica spada è il perdono».
Una protesta di cristiani copti al Cairo (foto Reuters).
Tutti concordi a Bruxelles, sul fatto che oggi è il tempo del dialogo.
«L'unico strumento per risolvere i problemi, che ci sono, non vanno
nascosti, ma attenzione, bisogna evitare il panico e le polarizzazioni»,
ribadisce padre Pizzaballa, che vive a Gerusalemme da vent'anni e ha
grande conoscenza di tutta l'area: «Ci sono problemi con i salafiti, ma
ci sono anche religiosi musulmani con i quali è un piacere dialogare.
Questo dialogo non può riguardare la fede, ma la vita concreta delle
comunità: la piena cittadinanza, la giustizia, i diritti dei lavoratori,
le libertà. Non un dialogo tra religioni, ma tra credenti. Questo
dialogo, mano a mano, plasmerà le mentalità».
«Non c'è possibilità di
sviluppo senza il rispetto della dignità, della democrazia, della
libertà. L'aspetto religioso, animato dal dialogo, può favorire la
soluzione dei problemi», dice monsignor Youssef Soueif, vescovo maronita
di Cipro, che dice anche: «Il cristiano, che è figlio di questa terra,
non può fare a meno di essere all'interno della comunità, e di
continuare a contribuire». Aveva fatto ben sperare la Primavera
araba, poiché musulmani e cristiani avevano manifestato insieme. «La
disperazione è stata più grande della paura di essere arrestati e
torturati. Sono scesi in piazza uniti nelle loro rivendicazioni di una
politica più giusta per l'uomo», sostiene Berthold Pelster, di Aiuto
alla chiesa che soffre: «In Egitto, il 47% dei cittadini vive al di
sotto della soglia di povertà. La disoccupazione tra i giovani è
elevatissima. Chi non ha un lavoro, non ha un reddito, in una società in
cui è normale a vent'anni formarsi una famiglia. La gente ha chiesto il
diritto alla democrazia, a condizioni di vita giuste. Ma questa
immagine di armonia è andata subito in crisi, dopo la caduta di Mubarak.
Al Cairo sono state fatte saltare delle chiese. I molti giovani che
avevano partecipato alle manifestazioni, non sono stati capaci di
proporre una leadership, e le elezioni sono state vinte dai partiti
islamisti, che vogliono introdurre la sharia».
Tra i Paesi che destano
maggiore preoccupazione spicca il regno saudita, dove vive un milione di
cristiani, il 4% della popolazione – prevalentemente stranieri -, ma è
proibito mostrare oggetti devozionali e celebrare funzioni religiose.
«Qualche settimana fa», riprende Pelster, «il gran mufti ha persino
chiesto che fosse vietato costruire chiese in tutta la Penisola arabica e
che quelle esistenti fossero abbattute. In Siria, gli scontri sono
diventati una vera e propria guerra civile che ha mietuto migliaia di
vittime. Questo potrebbe portare alla caccia ai cristiani, ponendo fine a
una lunga tradizione di convivenza pacifica tra cristiani e musulmani».
«I cristiani continuano a essere perseguitati. Ecco perché abbiamo
inteso portare il problema qui a Bruxelles, perché se l'Ue vuole restare
credibile sul tema dei diritti umani, non può prescindere dalla tutela
della libertà religiosa», va dritto al sodo, Konrad Szymanski, dell'Ecr
Group. «Il problema», secondo Mario Mauro, presidente dei deputati del
Popolo della libertà al Parlamento europeo e già rappresentante Osce con
l'incarico di monitorare la persecuzione dei cristiani nel mondo, «è
che si fa fatica a sfatare il pregiudizio secondo il quale la presenza
dei cristiani nei Paesi arabi è il riflesso della presenza dei
colonialisti. Questo pregiudizio ha tenuto in ostaggio l'Ue, perché
c'era la paura che difendere i cristiani nel mondo arabo, volesse dire
rilanciare un progetto egemonico nei confronti di questi Paesi».
«Con la Primavera araba, in Paesi rimasti immobili per quarant'anni, è
iniziato un cambiamento epocale», aggiunge padre Pizzaballa: «Subito ci sono stati, da una parte,
reazioni entusiastiche, dall'altra, timori in merito a quello che
sarebbe successo in seguito. Non possiamo aspettarci che improvvisamente
ci sia una trasformazione completa, positiva. Ogni cambiamento deve
avvenire lentamente, anche nel mondo arabo. E ogni Paese ha una sua
dinamica: quello che succede in Egitto non ha nulla a che vedere con
quello che succede in Libia, o in Siria».
Purché «l'obiettivo sia il rispetto di tutti i cittadini e la creazione
di organismi politici capaci di garantire i valori democratici e di
difendere il dialogo con le minoranze etniche e religiose», conclude Joe
Vella Gauci, della Comece.
Romina Gobbo