01/05/2012
Una delle donne che cercano giustizia presso il Saajs (foto R. Gobbo).
«Un'esplosione. Mio marito è morto. Dei miei quattro
figli, due hanno problemi psicologici, hanno perso la memoria, e uno ha anche
difficoltà a parlare. Io ho problemi di cuore e la nostra casa ha il tetto
pericolante», dice Fatima.
«Quando è
scoppiato il conflitto, siamo scappati da casa, immediatamente, senza neanche
poter prendere le scarpe. Quando sono potuta ritornare, tutto era stato
bruciato. Chiedere aiuto al Governo è inutile. Tutti sanno che alla gente
povera non danno la licenza per commerciare. Ci vogliono le mazzette e io non
ho soldi. Io, poi, non ho neppure potuto provare a chiedere, perché non so né
leggere, né scrivere. Quelli della famiglia che lo sapevano fare, sono stati
uccisi», afferma Fauzia.
«Nella casa
vicino a noi, un bambino stava nel suo lettino quando è entrata una persona con
un fucile. Il piccolo pensava che stesse giocando con l'arma, gli sorrideva,
invece il signore della guerra gli ha sparato. Mio marito è stato ucciso da un
razzo, sono rimasti solo pezzi di carne appesi al muro. Nel massacro perpetrato
dai talebani, della mia famiglia allargata, sono state ammazzate settanta
persone», racconta Marzia.
«Non riesco a dormire, soffro di depressione e devo
prendere sempre farmaci. Sto seduta e piango per tutte le persone morte che ho
visto. Gli uomini sono stati ammazzati e noi donne siamo dovute fuggire, non
abbiamo neppure potuto seppellire i nostri mariti, che sono stati gettati in
una fossa comune. Quando più tardi, ci è stato chiesto di riconoscerne i corpi,
erano decomposti o mangiati», aggiunge un'altra.
Sono le voci
dei familiari delle vittime: del regime filosovietico (1978-1992), delle guerre
civili (1992-1996), dell'epoca del terrore dei talebani (1996-2001) e fino a
oggi (solo negli ultimi dieci anni, le stime ufficiali parlano di 67 mila morti,
di cui 15 mila civili afghani).
Sono
soprattutto donne quelle che incontriamo in un quartiere povero di Kabul;
vedove, figlie rimaste senza padre, sorelle che hanno perso i fratelli, ma ci
sono anche uomini, che magari hanno fatto la resistenza, ma nessuno glielo
riconosce. Sono donne che la vita ha messo a dura prova, hanno magari 35, 40
anni, ma i visi rugosi dei nostri vecchi, la sofferenza stampata in volto; la
loro età non la sanno neppure loro, qualcuna azzarda un circa, qualche altra
non risponde.
Weeda Ahamd, direttrice del Saajs (foto R. Gobbo).
A prendere a cuore le loro storie, è stata Saajs (Social Association of Afghan Justice Seekers – Associazione afghana per la giustizia), sorta nel 2007, con l'obiettivo che vengano perseguiti tutti coloro che, negli ultimi trent'anni, hanno violato i diritti umani e commesso crimini. «Da quando il governo Karzai e i suoi sostenitori stranieri si sono insediati, tasso di insicurezza (ogni giorno centinaia di afghani innocenti perdono la vita in attentati suicidi), povertà (i 40 miliardi di dollari di aiuti internazionali si sono persi nei corridoi del potere), disoccupazione, ingiustizia, corruzione (la coltivazione estensiva e la produzione di oppio sta trasformando la società in un narcostato), uccisione di civili, violazione dei diritti umani, sono aumentati», dice Weeda Ahamd, direttrice di Saajs: «Il Governo non fa altro che ratificare leggi crudeli e ingiuste. L'amnistia per quanti rinunciano alla lotta armata e rompono i legami con Al Qaeda, votata nel 2007 dal Parlamento, è un invito aperto a continuare a commettere crimini e impedisce la vera riconciliazione».
Chi si avvicina all’associazione cerca aiuto per ricostruire le case che hanno perso, per trovare un lavoro per mantenere quel che è rimasto delle loro famiglie. Ma chiede anche che si faccia luce sulle fosse comuni, che i criminali siano assicurati alla giustizia e giudicati da un tribunale internazionale imparziale. Saajs sta facendo un grosso lavoro di ascolto di chi ha perso i familiari. Mariti, mogli, figli, fratelli, sorelle e parenti: vogliono che le loro storie siano conosciute. «Non vogliamo vendetta, non vogliamo lavare il sangue con il sangue, vogliamo giustizia e vogliamo la pace, ma non potrà esserci pace, finché non avremo nulla da mangiare», conclude Fauzia.
Romina Gobbo