01/05/2012
Malalai Joya nella sua casa-nascondiglio di Kabul (foto R. Gobbo; foto di copertina: Reuters).
Una
quindicenne è stata torturata dal marito perché si è rifiutata di andare con
altri uomini, come lui pretendeva. Un'altra ragazza è stata violentata da un
signore della guerra. È rimasta incinta. Le hanno detto che, se accettava di sposare l'uomo che
l'aveva violentata, sarebbe potuta restare in prigione solo tre anni. Una
prostituta è stata impiccata. Sono queste le storie che fanno infuriare Malalai
Joya, ex parlamentare, eletta nella provincia di Farah, la più povera,
nell'Afghanistan occidentale.
«L'intervento
internazionale contro i talebani, nel 2001", racconta, "era stato giustificato anche con la necessità
di tutelare i diritti delle donne. Sono passati quasi 11 anni e non è cambiato
nulla, anzi, la situazione sta peggiorando e gli americani trattano con gli
stessi che prima hanno cacciato. Gli Ulema (maestri nelle scienze religiose,
n.d.r) hanno redatto, ai primi di marzo, un codice di comportamento, che sancisce
che le donne non possono viaggiare senza essere accompagnate da un uomo e non
possono parlare con sconosciuti in luoghi pubblici. Picchiare la moglie è
vietato solo “nel caso che questo gesto non sia compiuto in conformità con la sharia”.
La lapidazione in pubblico è ancora in uso. Così come si può picchiare
tranquillamente una donna con un frustino o ferirla con un coltello, anche se è
incinta. L'islam è uno strumento utile, a uso di questi misogeni. La cosa più
grave è che il presidente Karzai ha approvato questo codice. Questa guerra,
invece di portare un miglioramento, ci sta riportando al Medioevo».
Abbiamo
incontrato Malalai in una casa anonima e ben protetta da un
gruppo di guardie armate, nella periferia di Kabul, dopo due cambi di auto per
motivi di sicurezza. Misure necessarie perché questa giovane donna, dalla mente
arguta e dall'innato coraggio, tanto che alcuni la paragonano alla leader
dissidente birmana, Aung San Suu Kyi, è parecchio scomoda. Fa vibrare ancora le
coscienze dei suoi seguaci, la sua frase: “Se non vi giudicherà un tribunale,
vi giudicherà la storia”.
Una donna con il burqa mendica per le strade di Kabul (foto Reuters).
All'epoca era delegata alla Loja Jirga (assemblea del popolo), che doveva redigere la Carta costituzionale, prese la parola e denunciò la presenza in quella stessa assemblea e nei posti di potere, di criminali di guerra. Era il 2003 e lei aveva 26 anni. Da allora, non ha più una casa, vive nascosta, si muove da un posto all'altro, sempre per periodi brevi, e il tanto odiato burqa, simbolo della sottomissione della donna, è diventato per lei un prezioso alleato. In lotta contro i fondamentalisti e i signori della guerra, è già scampata a sei attentati: nell'ultimo, recente, attacco ai suoi uffici di Farah, sono rimaste ferite due sue guardie del corpo.
- L'ennesimo attentato, ma non ha paura?
«Quando sono andata all'ospedale a trovare le mie due guardie del corpo, mi hanno detto che sono pronte a morire per me, da questo ho ricevuto ancora più energia, più forza. Sono state loro a infondermi speranza e coraggio, dicendomi che non devo darmi per vinta, che bisogna andare avanti. Devo nascondermi, certo. A volte, facciamo girare la notizia che sono all'estero, in realtà sono qui. Ma la gente vuole che io rimanga in vita».
- Qualcuno solidarizza?
«Molti sono dalla mia parte, ma hanno troppa paura per fare dimostrazioni, perché la repressione è terribile. Ma non sono sola. Tanti attivisti e democratici sono impegnati come me, solo che il giornalismo occidentale non ne parla. Altre volte, nel passato, sono stati sconfitti i dittatori, però nel mio Paese bisogna fare i conti con una situazione catastrofica: povertà, ignoranza e mancanza di cibo. Io cerco di spiegare e la gente, piano, piano, diventa sempre più consapevole. In fondo, sono speranzosa perché, se è stato approvato questo codice di comportamento, significa che la resistenza delle donne fa paura».
- Le truppe straniere se ne andranno?
«Parlano del 2013 o 2014, ma non sono onesti. Stanno spendendo ancora di più nel settore militare: è ovvio che resteranno. Dicono che se ne andranno, ma è tutta propaganda. Intanto, il numero delle vittime civili aumenta. Quando uno esce a Kabul, non sa se tornerà a casa. Gli stranieri rafforzano questo Governo “pupazzo”. Signori della guerra, americani e talebani si comportano come moglie e marito, che, dopo un po', stanchi l'uno dell'altro, litigano. Ma sono sempre stati insieme e sempre lo saranno, perciò poi fanno la pace. La democrazia non si è mai imposta con la violenza. Va trasmessa con l'educazione. Non tocca agli stranieri, è un dovere degli afghani».
Romina Gobbo