Guerra in Mali: gas, petrolio e jihad

Un intervento legittimo per ripristinare la libertà o un atto neocoloniale? Gli interessi economici in gioco, oro e uranio compresi. Poi, le vittime: morti, feriti, sfollati, profughi.

Prodi: "Intervento inevitabile, ma occorre pacificare in fretta"

20/01/2013
Foto Reuters.
Foto Reuters.

«Si sapeva che i ribelli dell’estremismo islamico erano bene armati, ma non si pensava fino a questo punto. L’attacco sferrato nei giorni scorsi stava portando al loro dilagare verso la capitale. Ero in Mali, a Bamako, quand’è iniziata l’offensiva. Nessuno se l’aspettava. L’esercito maliano non sarebbe stato in grado di fermarla. L’Intervento francese ha evitato una pericolosa avanzata dei guerriglieri». A parlare è Romano Prodi, inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, per il Sahel.

Il Presidente Prodi risponde alle nostre domande mentre sta operando una serie di rapide visite in Europa, Cina, Russia e Canada, proprio per trovare soluzioni tempestive alla crisi bellica e umanitaria che ha investito il Paese africano.

Da mesi la guerriglia filo Al Qaeda aveva occupato la terra dei tuareg e oltre, tutto il Nord del Mali. Ma l’ultima offensiva mirava alla conquista dell’intero Paese. Perciò la reazione della Francia, messa in atto con una serie di raid aerei e con il dispiegamento – tutt’ora in corso – di circa 1.500 militari, a sostegno delle forze armate maliane. La controffensiva francese sta via via liberando dalla presenza degli estremisti islamici le principali città del Nord: Mopti, Konna, Diabali, Gao, Timbuctù.

– Presidente Prodi, la Francia ha forzato la mano?

«C’era già l’accordo generale del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, votato il 20 dicembre scorso, che prevedeva l’invio di 3.300 caschi blu africani. Direi che, a differenza di altri conflitti, la comunità internazionale non aveva dubbi sulla necessità di una missione militare. Il precipitare degli eventi aveva reso rischioso attendere ancora. C’era il fondato timore che l’intero Paese finisse in mano ai terroristi».

– Qual è ora il suo obiettivo principale?

«Il mio mandato ha quattro punti principali. Primo, aiutare il Segretario generale delle Nazioni Unite a favorire il dialogo e il coordinamento fra le diverse strutture internazionali operanti nel Sahel. Secondo, preparare il terreno per le riforme da fare in Mali, dove la tensione fra Nord e Sud durava da decenni: le regioni settentrionali rivendicavano autonomia, considerandosi marginalizzate dal governo di Bamako. Un terzo obiettivo è reperire risorse per intervenire efficacemente sull’emergenza umanitaria in atto. Infine, più nel lungo periodo, occorre avviare un’azione internazionale di sviluppo per il Sahel, che è una delle zone più povere dell’Africa. È necessario costruire un fondo globale d’intervento per le infrastrutture, per realizzare sviluppo. È un lavoro a lungo termine, che durerà anni, mi hanno chiesto di incominciarlo, lo sto facendo».

– La controffensiva francese era inevitabile?

«Per chi era quel giorno a Bamako risultava inevitabile. Dato il precipitare degli eventi, una risposta tardiva sarebbe stata rischiosa. Quando la controffensiva francese è stata annunciata, mi trovavo in un incontro con i giornalisti locali che mi stavano proprio accusando di eccessivo pacifismo. L'attacco al Nord rendeva impossibile qualsiasi prolungamento del dialogo».

– Qual è la radice della crisi?

«Le radici della crisi sono lontane, perché le divisioni fra Nord e Sud risalgono indietro nei decenni. Tutto però è precipitato con la guerra di Libia. I tuareg costituivano la forza dell'esercito di Gheddafi, che inoltre inviava copiosi aiuti finanziari agli abitanti delle loro zone d'origine. Con la guerra in Libia, i militari di origine maliana dell’esercito sconfitto sono tornati nelle loro terre d’origine, senza risorse e con le armi moderne di cui l’esercito di Gheddafi era dotato. Il risultato è stato da un lato l'arrivo di un grande numero di uomini armati nella regione dell'Azawad, nel Nord del Mali, dall'altro l'improvvisa mancanza di risorse ha provocato un vertiginoso aumento della già fiorente economia illegale: traffico di droga, sequestri di persona, contrabbando. Una situazione che continuava a degenerare. Ora si tratta di creare le condizioni per andare a sostituire un’economia legale, di cui c’è estremo bisogno, al posto di quella illegale. Un processo lungo e complesso. Per ora, il mio compito è quello di far dialogare tutte le parti per trovare soluzioni concertate alla crisi e spingere i grandi Paesi e le grandi istituzioni internazionali a preparare risorse per lo sviluppo economico del Sahel. Un compito lunghissimo e difficile».

Luciano Scalettari

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