27/08/2011
L’aria nei locali della casa accoglienza per malati del San Camillo-Forlanini di Roma “Casa del Sole”, da alcuni giorni è elettrica. Un’ala della struttura - che alloggia famiglie di malati gravi, in gran parte provenienti da paesi in emergenza umanitaria, ma anche da altre regioni italiane - ospita 25 persone (13 pazienti, di cui 10 minori, e i loro accompagnatori) tutti di provenienza libica. Al Jazeera passa a ciclo continuo immagini di bunker assediati, avanzate di ribelli, città conquistate palmo a palmo.
Sistemati su un comodo divano e su ogni sedia disponibile nel corridoio della casa, uomini, donne, ragazzi seguono gli eventi, incollati al video. E alle 20.13, il tramonto del sole che mette fine al digiuno giornaliero del Ramadan, finalmente si alzano i calici per il brindisi alla libertà: rigidamente a base di succo di frutta o Coca Cola, in ottemperanza al divieto islamico di bere alcolici. «Sono 42 anni che attendiamo questo momento», spiega con evidente soddisfazione Jalal, un ingegnere aeronautico sulla cinquantina, giunto a Roma con la figlia affetta da una grave patologia epatica. «Mi dispiace essere qui e non poter festeggiare con la mia famiglia e i miei compaesani. Ma la gioia è ugualmente immensa. Basta con Gheddafi, è stata la nostra rovina. La Libia è un vero paradosso: il paese più ricco con la popolazione più povera di tutta l’area».
Il gruppo di libici giunti a Roma a fine giugno per restarci altri tre mesi, fa parte della seconda fase del progetto di intervento di emergenza socio-sanitaria affidato al noto nosocomio romano. Il primo stadio, svoltosi in convenzione con Regione Lazio e ministero Affari Esteri, si rivolgeva a feriti di guerra dell’aria di Bengasi e ha coinvolto in tutto 57 persone, di cui 37 pazienti e 20 accompagnatori, arrivate ad aprile e tornate in patria alla fine di luglio.
Il secondo gruppo invece, giunto grazie a una accordo di collaborazione con Europe Consulting Onlus finanziato dalla Fondazione Vodafone, è composto da persone con patologie gravi, in gran parte bambini, che dati i mezzi limitati e il sovraffollamento degli ospedali libici per il continuo afflusso di feriti della guerra in corso, rischiavano di non venire trattati con le dovute cure.
«Per più di
40 anni siamo stati governati da un folle, un intero Paese in schiavitù»
«Per noi è un’esperienza che potremmo definire di meta-sanità», spiega Aldo Morrone, direttore generale dell’ospedale. «Un
progetto che ci inserisce a pieno titolo nella migliore tradizione di
sanità globale che caratterizza i più grandi ospedali occidentali.
Presto ospiteremo un grosso gruppo di pazienti irakeni». «Non credo che la guerra finisca a breve», interviene nel dibattito Adel, un ingegnere che ha collaborato con le operazioni Nato, ora a Roma con il
figlio affetto da patologia renale e sordità congenita. «Ci sono molti
fedeli del Raìs che combatteranno fino all’ultima pallottola. Prevedo
almeno qualche altro mese di conflitto». «Io invece penso che non dovremo attendere molto», gli fa eco Marwa,
una giovane paziente. «Per il
dittatore e i suoi seguaci, le ore sono contate. E finalmente sarà
libertà e pace. A scuola non potevamo esprimere alcuna critica al
governo, nonostante fossimo tutti ridotti in povertà, senza accesso alle
cure, e dovessimo tirare avanti con poca elettricità e beni primari
scarsi. Molti degli insegnanti praticamente erano delle spie del
regime».
Tutti nel gruppo si dicono fieramente oppositori del Raìs. «Per più di
40 anni siamo stati governati da un folle, un intero
paese ridotto in schiavitù», riprende Jalal. «Ma tutto questo si è potuto verificare
grazie anche alla compiacenza di molti Paesi occidentali. Siamo molto
dispiaciuti per il sostegno dato a Gheddafi dall’Italia». Nessuno di
questa comunità dimentica, infatti, che esattamente un anno
prima, a neanche un chilometro di distanza dal San Camillo, quel Raìs che ora è
in disarmo, faceva un suo show trionfale nella capitale, tra tende,
sfarzo, centinaia di hostess, profeta di un Islam che avrebbe
dovuto conquistare menti e cuori europei. «Gheddafi è finito ma io non riesco a essere felice», confessa Farag. «Penso a tutta la gente morta, a tutti i ragazzi che sono stati uccisi,
anche in questi giorni». «Era un cattivo dittatore», si fa largo Aya,
una ragazzina sveglissima di 12 anni con una seria patologia cardiaca,
figlia di Farag. «E con lui finisce l’ingiustizia. Potremo finalmente
studiare le lingue, non solo l’arabo e avere una scuola giusta per
tutti».
Per tutta questa gente è finalmente lecito sognare. Tra i primi
desideri, ovviamente, c’è la pace.
Confida Adel: «Sono certo che presto giungeremo a un nuovo esecutivo di
transizione che lavorerà bene e porterà pace e giustizia. A differenza
dei nostri fratelli tunisini ed egiziani, noi
libici riusciremo a far tacere presto le armi e a normalizzare la
situazione. Siamo un piccolo popolo di poco più di 6 milioni di abitanti
e, soprattutto, siamo molto uniti». Poi il lavoro e la sanità. Spiega l’ingegnere aeronautico Jalal: «Prendiamo paghe da fame, neanche 200
dollari al mese io e 180 circa mia moglie, che è insegnante. Ho otto
figli e una di loro ha grossi problemi di salute. L’ho portata in
Inghilterra con grandi sacrifici, ma tornata in Libia è peggiorata molto
per mancanza di medicine e dottori specialistici».
Il brindisi è terminato, ora si può finalmente mangiare. «Forse», sorride Aya, «al termine del Ramadan avremo un motivo in più per
festeggiare».
Luca Attanasio
(dossier a cura di Pino Pignatta)