Kirghizistan, sangue e profughi

Sprofonda nel dramma (100 mila profughi e centinaia di morti) l'ultima crisi in Asia Centrale. Ma per una volta Usa e Russia non c'entrano.

La democrazia, che dramma

15/06/2010
Kurmanbek Bakiev, ex presidente del KIirghizistan.
Kurmanbek Bakiev, ex presidente del KIirghizistan.

Sembra un crudele paradosso ma ciò che ha fatto del male al Kirghizistan, la Repubblica dell'Asia Centrale scossa da giorni di scontri sanguinosi con ormai centinaia di morti e più di 100 mila profughi ammassati nei campi ai confini con l'Uzbekistan, è stata proprio la ricerca della democrazia.
 
     Quando l'Unione Sovietica tracollò, il potere cadde nelle mani di Askar Akayev, non il tipico tecnocrate comunista ma uno scienziato, l'uomo al quale Michail Gorbaciov aveva proposta la vice-presidenza dell'Urss, ricevendo un cortese rifiuto. Presidente del Kirghizistan indipendente dal 1991, Akaev aprì all'economia di mercato e alla democrazia. Il problema era che con la democrazia tutto il processo decisionale rallentò di colpo e così Akaev cominciò ad accumulare potere: nel 1992 si autonominò anche capo del Governo; nel 1994, con un referendum, fece ridurre i poteri del Parlamento; nel 1995 ottenne la rielezione con una maggioranza "bulgara" dopo aver stroncato l'opposizione e incarcerato gli oppositori; nel 2000, altrettanto.

    Il mite ex presidente dell'Accademia delle Scienze del Kirghizistan era diventato un autocrate come quelli dei Paesi vicini. Arrivato alle elezioni del 2005 tra proteste di piazza, crisi economica e accuse di corruzione, Akaev cercò di organizzare una successione dinastica, presentando come candidati al Parlamento il figlio Aidar e la figlia Bermet. Di fronte a manifestazioni crescenti, Akaev riuscì a resistere fino a maggio, poi dovette lasciare in tutta fretta il Paese.

     Il suo posto fu preso dal leader dell'opposizione e della cosiddetta "Rivoluzione dei Tulipani", Kurmanbek Bakiyev, che promise onestà, sviluppo economico e, soprattutto, più democrazia. Indovinate? Arrivarono più corruzione, meno sviluppo e meno democrazia: Bakiev ha cambiato più volte la Costituzione, ha chiuso la stampa libera, ha incarcerato gli oppositori. Nel 2008 si è fatto rieleggere coi brogli e nel 2010 è stata cacciato dall'ennesima sollevazione popolare.

    Siamo quindi ai giorni nostri, ai morti e ai profughi causati, come si sente spesso dire, dalla rivalità tra l'etnia kirghiza e quella uzbeka. La situazione, però, è più complessa di così. A fomentare gli scontri nel Sud del Paese non sono solo le rivalità etniche o quelle politiche (il figlio di Bakiev, Maksim, è stato arrestato a Londra: si pensa che fosse lì per raccogliere fondi per la rivincita del padre) ma anche gli interessi dei gruppi della criminalità organizzata e soprattutto del traffico di droga, di cui non solo il confinante Afghanistan ma anche la valle di Fergana, in pieno Kirghizistan, sono due roccaforti. Questi gruppi hanno sentito subito che la presa sulle leve del potere da parte del Governo provvisorio guidato da Roza Otumbayeva era meno salda che in passato e si sono mossi, per conquistarsi spazi di manovra in regioni a cui, in pratica, sia Akayev sia Bakiev (che pure è di etnia uzbeka e originario di Osh, oggi al centro degli scontri) avevano quasi rinunciato.

     Usa e Russia, poverini, stanno a guardare. Gli Usa hanno una base militare a Manas, non lontano dalla capitale Bishkek, che è la vera retrovia delle loro operazioni in Afghanistan. E sempre vicino a Bishkek, nel centro di Kant, hanno una grande base anche i russi. Per ragioni pratiche e strategiche, i due colossi hanno un solo interesse: che il Kirghizistan, democratico o no (ma meglio no), stia tranquillo. Per questo Washington non ha fiatato di fronte ai progetti di intervento militare umanitario di Mosca.
 
   

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