15/01/2012
L'emigrazione europea di fine Ottocento-primi Novecento. Foto Corbis.
In aereo e non più in nave. Con veloci trolley al seguito, senza dover trascinare pesanti valigie di cartone. Magari parlando già inglese. O spagnolo o ancora portoghese, dipende. L'Europa ha smesso di essere unicamente approdo: sta tornando ad esser porto di partenza. Riparte l'emigrazione. Per quanto sia ancora contenuto nei numeri, il fenomeno sta diventando rilevante soprattutto nelle Nazioni europee alle
prese con un debito pubblico che condiziona pesantemente la ripresa economica. In ultimo ha cominciato a interessare l'Italia.
«I numeri e le destinazioni sono ovviamente diverse da Paese a Paese, come emerge da un'inchiesta del quotidiano inglese The Guardian sul finire dello scorso anno», spiega il sociologo Franco Garelli, che al tema ha dedicato un recente editoriale pubblicato dal Messaggero. «In Irlanda, ad esempio, dove i disoccupati ammontano al 15% della popolazione, l’emigrazione è in costante crescita dal 2008, anno in cui le economie del mondo occidentale hanno iniziato a tremare. Nel 2011 è raddoppiata – rispetto al 2010 – la quota di irlandesi che hanno lasciato la loro patria. Alla ricerca di nuove chances e approdi non vi è soltanto la gente comune, ma anche promesse del mondo dello sport (del football, del rugby), anch’esse refrattarie a realizzarsi in un contesto segnato dalla crisi».
«L’esodo sembra particolarmente rilevante in Grecia, paese in cui – secondo i dati della Banca Mondiale – è emigrato all’estero nel 2010 oltre il 10% della popolazione», prosegue il professor Garelli. «Anche in questo caso il fenomeno ha coinvolto gruppi qualificati, visto che in un solo anno il paese ha perso più del 9% dei suoi medici. Non pochi cittadini greci si sono trasferiti in Australia, mentre altri sono a ancora attratti dalla Germania o dal Regno Unito. Inoltre, aumenta sensibilmente il flusso verso i Paesi dell’area (Turchia, Cipro, Israele) e verso quelli del Sud del mondo».
L'emigrazione europea di fine Ottocento-primi Novecento. Foto Corbis.
Per il
Portogallo e la Spagna la sfida sembra apparentemente più semplice. «Il
passato coloniale e i legami linguistico-culturali con il Sud America o con
l’Africa (nel caso del Portogallo) sinora considerati pesanti zavorre perché
‘responsabili’ di flussi di immigrati, si rivelano in tempi di crisi assai
utili», osserva ancora Garelli. «A beneficiarne di più sono i portoghesi in uscita, molti dei quali
approdano nell’Angola ricca di petrolio o in Mozambico, o ancora individuano
nel Brasile il nuovo miraggio. Proprio nel paese sudamericano oggi più in
espansione, il numero degli stranieri residenti è aumentato negli ultimi sei
mesi del 50%, un terzo dei quali rappresentati da portoghesi». Tra le
mete, comunque, non mancano le economie emergenti dei cosiddetti Bric
(Brasiel, Russia, India, Cina) oltre all'immancabile Australia.
«Rispetto alla fine dell'Ottocento e ai primi del Novecento, cambiano
non solo tempi, più contenuti, e mezzi di trasporto, più tecnologici e
rapidi, ma anche i protagonisti, conclude Franco Garelli. «Si sa che per emigrare occorrono risorse economiche, culturali e sociali. Chi parte le possiede. Soprattutto
non si rassegna al declino, ha voglia di intraprendere nuove sfide, non
ci sta a vivacchiare, sente l’esigenza di nuovi stimoli e non teme le
tensioni e i costi personali legati allo sradicamento dal proprio
ambiente di vita e dall’inserimento in nuovi contesti. La perdita è
doppia: vanno via giovani leve (importanti per paesi dove il tasso di
invecchiamento è fra i più alti) e con loro se ne vanno anche gli
investimenti fatti per la loro formazione. Non è facile al momento
dire quanto il nostro Paese sia interessato da questo fenomeno, che non
riguarda solo il caso particolare e assai pubblicizzato della “fuga dei
cervelli”. Tuttavia è evidente il rischio che anche in Italia si
crei un esodo che porta altrove molte energie se non saremo in grado di
ridurre i gravi squilibri che da tempo bloccano il nostro modello di
sviluppo e la vita collettiva. Il che implica non solo decisioni
politiche ed economiche rigorose, ma anche un maggior impegno di tutti
per un forte cambiamento nei nostri stili di vita e di presenza
pubblica».
Alberto Chiara