02/01/2013
Riproponiamo sulla nostra edizione online il Commento di Franca Zambonini (pubblicato su Famiglia Cristiana No. 17 del 2009) in occasione dei cent'anni di Rita Levi Montalcini.
La prima volta che incontrai
Rita Levi Montalcini era il
1979: nel Laboratorio di biologia cellulare del Cnr sezionava
un embrione di pollo usando come bisturi un ago da ricamo. Alzò gli occhi dal microscopio e rise: «Solo io al mondo riesco a fare
una cosa così». Mi sembrò un po’
esagerata, sette anni dopo le dettero il Nobel. Era in pensione, ma
il Consiglio nazionale delle ricerche la teneva ancora per 300 mila lire al mese, oggi meno di 150
risibili euro: «Non mi lamento,
ho il privilegio di poter ancora lavorare alla mia età».
La sua età era, allora, di anni
settanta. Ne ha compiuti cento il
22 aprile, dice che il cervello, se
lo tieni sempre sveglio e curioso,
non invecchia e può persino migliorare: «Per profondità di pensiero e intuito, ritengo di avere
più possibilità di quando avevo
vent’anni». Nella sua casa romana tra le opere della gemella Paola, pittrice e scultrice scomparsa
nel 2000, c’è anche un suo ritratto a medaglione che le disegnò il
fratello maggiore Paolo, la scritta
intorno dice: «Rita fragilissima resistentissima». Quasi una biografia in tre parole.
In quella prima intervista, mi
raccontò gli ostacoli di quando
cresceva a Torino in una famiglia ebraica «di rigida educazione vittoriana». Gli scontri con il
padre che la mortificò in un liceo
femminile, mentre lei voleva diventare medico. L’approdo all’università a 21 anni, con il gelido commento paterno: «Adesso
sei maggiorenne, non posso impedirtelo». La laurea in Medicina
e subito un incarico universitario, fino alle leggi razziali del ’38
che a lei, come a tutti gli ebrei,
impediscono di lavorare e così attrezza un rudimentale laboratorio in camera da letto: «Il seme
della mia ricerca è nato in quella
stanza». Clandestina fino alla fine della guerra, dal ’47 è in America per la ricerca nata a Torino
che doveva finire in pochi mesi,
ma che durò sedici anni.
Ama ripetere che battaglie e rischi sono stati la base del suo successo. «Ai giovani dico: le difficoltà aiutano, siate contenti di poter
lottare. Quando non si ha fame, si
perde il gusto del pane. Temo per
chi si trova la strada troppo spianata». Oggi, scienziata di notorietà mondiale, premio Nobel, senatrice a vita, riassume così i suoi
cent’anni: «Ciò che mi era contro,
s’è voltato a mio favore».
Quando, nell’86, le dettero il
Nobel insieme al biochimico
Stanley Cohen per la scoperta
dell’Ngf, il fattore di crescita delle cellule nervose, nel suo salotto
tra giornalisti urlanti l’unica quieta era lei, elegantissima, ingioiellata, i capelli bianchi a onda. “Nobeldonna della scienza”, come titolò un giornale spiritoso.
Disse: «La gioia del Nobel è
grande, ma mi stupisco di essere premiata per aver fatto esattamente quel che ho voluto». I soldi del premio, 400 milioni di lire
da dividere con Cohen, li avrebbe spesi per le ricerche biologiche e per i giovani ricercatori che
l’aiutavano a esplorare “la mia
giungla”, i cento miliardi di cellule del sistema nervoso umano.
Ormai ci vede e sente poco, ha
bisogno dell’aiuto di Giuseppina
Tripodi, sua assistente da quarant’anni. Va quasi ogni giorno all’Ebri, l’Istituto europeo di ricerche sul cervello da lei fortemente voluto. Segue la fondazione, intitolata a suo padre, che sostiene
ragazze africane con borse di studio: «Finora ne abbiamo assegnate 6.700, spero arriveremo a 10
mila l’anno prossimo».
La Rita fragilissima resistentissima pensa al futuro. Buon primo secolo, senatrice.
Franca Zambonini
a cura di Pino Pignatta