03/08/2010
La questione morale agita il dibattito politico
dal lontano 1981, da quando cioè –
undici anni prima di Mani pulite – l’allora
segretario del Pci, Enrico Berlinguer, ne
parlò per primo. La Seconda Repubblica nacque
giurando di non intascar tangenti, di rispettare
il bene pubblico, di debellare malaffare
e criminalità. Bastano tre cifre, invece,
per dirci a che punto siamo arrivati. Nel nostro
Paese, in un anno, l’evasione fiscale sottrae
all’erario 156 miliardi di euro, le mafie
fatturano da 120 a 140 miliardi e la corruzione
brucia altri 50 miliardi, se non di più.
Il disastro etico è sotto gli occhi di tutti.
Quel che stupisce è la rassegnazione generale.
La mancata indignazione della gente comune.
Un sintomo da non trascurare. Vuol
dire che il male non riguarda solo il ceto politico.
Ha tracimato, colpendo l’intera società.
Prevale la “morale fai da te”: è bene solo
quello che conviene a me, al mio gruppo, ai
miei affiliati. Il “bene comune” è uscito di
scena, espressione ormai desueta. La stessa
verità oggettiva è piegata a criteri di utilità,
interessi e convenienza.
Se è vero, come ha detto il presidente del
Senato Renato Schifani, che «la legalità è un
imperativo categorico per tutti, e in primo
luogo per i politici, e nessuno ha l’esclusiva», è altrettanto indubbio che c’è, anche ad
alti livelli, un’allergia alla legalità e al rispetto
delle norme democratiche che regolano la
convivenza civile. Lo sbandierato garantismo,
soprattutto a favore dei potenti, è troppo
spesso pretesa di impunità totale. Nonostante
la gravità delle imputazioni. L’appello
alla legittimazione del voto popolare non è
lasciapassare all’illegalità. Ci si accanisce, invece,
contro chi invoca più rispetto delle regole
e degli interessi generali. Una concezione
padronale dello Stato ha ridotto ministri
e politici in “servitori”. Semplici esecutori
dei voleri del capo. Quali che siano. Poco importa
che il Paese vada allo sfascio. Non si
ammettono repliche al pensiero unico. E
guai a chi osa sfidare il “dominus” assoluto.
Che ne sarà del Paese, dopo la rottura avvenuta
tra Berlusconi e Fini? La scossa sarà salutare
solo se si tornerà a fare “vera” politica.
Quella, cioè, che ha a cuore i concreti problemi
delle famiglie: dalla disoccupazione giovanile
alla crescente povertà. Bisogna avere
l’umiltà e la pazienza di ricominciare. Magari
con uomini nuovi, di indiscusso prestigio
personale e morale. Soprattutto se si aspira
alle più alte cariche dello Stato. Giustamente,
i vescovi parlano di «emergenza educativa».
Preoccupati, tra l’altro, dalla difficoltà di trasmettere
alle nuove generazioni valori, comportamenti
e stili di vita eticamente fondati.
Contro l’impotenza morale del Paese, il
presidente Napolitano ha invocato i «validi
anticorpi» di cui ancora dispone la nostra democrazia
e la collettività. Famiglia, scuola e,
soprattutto, mondo ecclesiale sono i primi a
essere chiamati a dare esempi di coerenza e a
combattere il male con più forza. Anche di
questo si dibatterà a Reggio Calabria, dal 14
al 17 ottobre, nella 46ª edizione delle Settimane
sociali dei cattolici italiani. Dei 900 delegati,
200 sono giovani. Una scelta. Un investimento.
Un piccolo segnale di speranza.