06/03/2013
Antonino Di Matteo, Pm titolare dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia (Foto Stefanini/Imagoeconomica).
«Questa lunga indagine non è il frutto di teoremi fantasiosi di pubblici ministeri che vogliono ricostruire – come pure ci hanno accusato – la storia d’Italia. È un’indagine fondata su dichiarazioni di testi, di testimoni di giustizia, su sentenze passate anche in giudicato, su documenti acquisiti anche di recente. Che provano un dato: in un certo momento storico, in particolare quando Cosa nostra si rese conto, nel 1991, che non sarebbe uscita indenne come sperava dal maxi processo di Palermo, decise di eliminare tutti quei politici che avevano tradito le loro aspettative. Il primo fu l’on. Salvo Lima, altri dovevano essere assassinati in seguito. Allora alcuni uomini dello Stato, su imput politico, cercarono di contattare i vertici dell’organizzazione mafiosa per indurli ad abbandonare quel programma».
E così cominciò la Trattativa. Su iniziativa della politica, dice la Procura di Palermo, non di Cosa nostra, né dei Carabinieri. A parlare è Antonino Di Matteo, magistrato dell’Antimafia di Palermo, titolare insieme ai colleghi del pool sia dell’inchiesta sulla “Trattativa Stato-mafia” (condotta insieme a Francesco Del Bene, Lia Sava e Roberto Tartaglia), sia del processo a carico dei due ufficiali dei Carabinieri Mori e Obinu per aver favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano, allo scopo di rafforzarne la leadership all'interno di Cosa nostra a danno della fazione di Riina.
Per quest’ultima indagine è già da tempo in corso il processo. Verso la metà di marzo si passerà alle requisitorie finali delle parti e alla sentenza. L’inchiesta sulla Trattativa, invece, andrà al vaglio del Giudice per le indagini preliminari giovedì 7 marzo, che dovrà decidere il rinvio a giudizio degli 11 indagati: i mafiosi Leoluca Bagarella, suo cognato Totò Riina, il pentito Giovanni Brusca e Antonino Cinà; tre politici: l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino (accusato solo di falsa testimonianza); tre ufficiali dell’Arma: i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex colonnello Giuseppe De Donno. Infine, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, Vito, accusato anche di concorso in associazione mafiosa e calunnia aggravata (È stata stralciata la posizione del dodicesimo indagato, il boss Bernardo Provenzano, per le sue condizioni psichiche che gli impedirebbero di seguire le udienze).
– Dottor Di Matteo, in base agli elementi acquisiti dalla Procura, cosa avvenne?
«Su mandato dell’on. Mannino, gli ufficiali dei Ros utilizzarono la mediazione dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino per creare un contatto con i corleonesi di Riina e Provenzano. Questo, però, provocò un effetto esattamente contrario a quello sperato: rafforzò in Cosa nostra il convincimento che la strategia del terrore era quella che pagava. Se lo Stato si era fatto avanti subito dopo il primo omicidio – quello dell’on Lima – per capire cosa l’organizzazione criminale volesse per interrompere il proprio progetto, allora occorreva rafforzare la strategia del terrore – di questo si convinsero i mafiosi siciliani – e mettere sul piatto della bilancia ulteriori azioni violente, ossia le stragi di Roma, Firenze e Milano. Questo fatto ci fornisce un’ulteriore conferma importante».
Via d'Amelio, subito dopo l'esplosione che uccise Paolo Borsellino e la scorta (Foto Ansa).
– Cioè?
«La strategia del dialogo con le organizzazioni criminali non paga, anzi, legittima e rafforza la stessa organizzazione mafiosa.
In quel frangente storico, provocò due decisioni nel vertice di Cosa
nostra. Oltre all’avvio della fase stragista con gli attentati nel
continente, quella di mutare i bersagli: non più eliminare i politici che avevano tradito, ma le persone che si potevano frapporre al buon andamento della trattativa, e quindi Paolo Borsellino…»
– Non Falcone?
«Quello di Falcone era un omicidio di natura “preventiva”, per
fermarlo rispetto a ciò che stava facendo al Ministero di Giustizia,
dove aveva impresso una decisa svolta nell’azione di politica criminale
del governo nei confronti della criminalità organizzata. Con le bombe, Cosa nostra vuole gettare nel panico l’opinione pubblica per rafforzare il suo peso contrattuale».
– La Procura da Palermo viene accusata del fatto che questa sia solo una ricostruzione dei magistrati senza prove.
«Lo dice chi non conosce un solo foglio dell’indagine. Mi permetto di ricordare che ci sono già sentenze definitive, come quella della Corte d’Assise di Firenze, che parlano di una vera e propria trattativa; ci sono sentenze che dicono che non è stata cercata e avviata da uomini di Cosa nostra ma da uomini dello Stato.
Ci sono perfino documenti ufficiali che lo attestano: uno fra tutti la
nota del direttore del Dap (Dipartimento di amministrazione
penitenziaria) al Ministro della Giustizia del giugno del 1993 che,
auspicando la mancata proroga di oltre 300 regimi “41 bis”, ossia di
carcere duro, nei confronti di altrettanti mafiosi, segnala l’opportunità di quello che viene definito “un segnale di distensione” nei confronti delle organizzazioni criminali».
– Voi magistrati vi siete lamentati ripetutamente del fatto che il mondo politico non ha aiutato l’accertamento della verità.
«Devo fare una constatazione molto amara, per chi come me crede nelle istituzioni, e cioè che la reticenza e l’omertà di esponenti politici e delle istituzioni è risultata evidente in più passaggi.
Ci sono stati uomini delle istituzioni che hanno reso sugli stessi
fatti dichiarazioni fra loro assolutamente contrastanti. Ad esempio, i
tre ministri Mancino, Scotti e Martelli hanno fornito versioni assolutamente differenti e incompatibili
rispetto ad alcune vicende a cavallo tra giugno e luglio 1992, subito
prima dell’attentato a Paolo Borsellino. O ancora gli on. Violante e Martelli, come pure la dottoressa Ferraro e altri, che “ricordano” fatti molto importanti solo a distanza di 18 anni, e soltanto dopo che Massimo Ciancimino, figlio di un mafioso, aveva rivelato alcune circostanze. È grave che questi uomini delle istituzioni abbiano parlato tanto tardivamente,
quando erano stati chiamati, più volte, a testimoniare davanti ai
magistrati e alle Corti d’Assise di Caltanissetta dove si svolgevano i
processi per le stragi di Capaci e via d’Amelio, e mai avevano riferito ciò che ammetteranno dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino».
– continua –
Luciano Scalettari