06/03/2013
Mario Mori, generale dei Carabinieri, sotto processo a Palermo per favoreggiamento aggravato (Foto Ansa).
– Perché?
«Siamo convinti che alcuni fatti, nella mente di molti, devono rimanere ancora nascosti, e che vi sono verità scomode, troppo scabrose per essere rese pubbliche».
– Il presidente della Commissione Antimafia, nel riferire all’organismo parlamentare della trattiva Stato-mafia, ha descritto un quadro per cui l’iniziativa di cercare un dialogo con Cosa nostra sarebbe da attribuire agli ufficiali dei Carabinieri.
«Riteniamo di poter provare che l’imput è partito dai politici, in particolare dall’allora ministro Mannino, che hanno interessato i vertici dei Ros per trovare una “soluzione”, e cioè per contattare la cupola siciliana e capire cosa volesse in cambio della cessazione della strategia già programmata di eliminare una serie di esponenti politici».
– Perché Cosa nostra ne aveva deciso l’eliminazione?
«Perché, secondo i mafiosi, non avevano mantenuto i patti, cioè li consideravano traditori».
– Guardando ai politici di cui chiedete il rinvio a giudizio, fanno capo a schieramenti diversi. Sembra che non un partito, ma il sistema politico intero sia andato a trattare con la mafia.
«Noi cerchiamo, e cercheremo ancora, di individuare eventuali responsabilità penali, che sono naturalmente personali. Qualsiasi generalizzazione sarebbe grave e ingiusta. Però c’è un dato che va sottolineato. Secondo le nostre ricostruzioni, quello sciagurato – anche negli esiti – tentativo di dialogo con la mafia, riguardò trasversalmente uomini di schieramenti diversi, e probabilmente anche per questo motivo questa indagine ha una peculiarità unica: è stata oggetto di una critica (legittima, ma alcune volte non fondata sulla conoscenza di atti e fatti) altrettanto trasversale. È stata astiosamente e violentemente attaccata da destra, dal centro e da sinistra. Una riflessione: se così è, chi ha fatto l’indagine una volta tanto non può essere accusato di voler favorire una parte politica piuttosto che un’altra.
– La questione della trattativa, però, non riguarda soltanto l’indagine che sta per andare davanti al Gip.
«No. In realtà, è oggetto anche del processo in corso a carico dei due alti ufficiali del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu, poi transitati nel servizio segreto civile. Il reato contestato è di favoreggiamento aggravato: riguarda la copertura della latitanza di Provenzano, ed è legata alla trattativa perché riteniamo che questi ufficiali non abbiano favorito il capomafia perché corrotti, ricattati o intimiditi, ma in adempimento a un segmento del patto raggiunto a seguito della trattativa, che prevedeva da un lato la cessazione della strategia stragista, e dall’altro la promessa di un abbandono della legislazione e dell’impegno antimafia massicio nei confronti di Cosa nostra. Di questo patto, per la mafia, era garante proprio Bernardo Provenzano, considerato rispetto alla strategia violenta di Riina la parte dialogante e “buonista” di Cosa nostra. Riguardo alla richiesta di rinvio a giudizio su cui deciderà domani il giudice, il senatore Mancino deve rispondere di falsa testimonianza, gli altri sono accusati a vario titolo di concorso in violenza o minaccia a corpo politico dello Stato».
Il boss Bernardo Provenzano al momento dell'arresto (Foto Ansa).
– C’è una recentissima novità: la lettera anonima di 12 pagine con il simbolo della Repubblica italiana sul frontespizio recapitata proprio a lei il 18 settembre scorso, che darebbe una versione diversa a tutta la questione della mancata perquisizione della casa di Riina. È così?
«Di questo non posso parlare, perché si sta indagando ed è coperta da segreto istruttorio. Posso solo dire che non si tratta di una lettera ma di un dossier che ripercorre molte vicende importanti e misteriose degli ultimi 20 anni a Palermo. Sembrerebbe, per le modalità di stesura e per i contenuti, attribuibile a uomini degli apparati di sicurezza o delle forze dell’ordine. Ne stiamo cercando di verificare il contenuto e gli autori».
– La procura di Palermo si è trovata opposta al Presidente della Repubblica per il “conflitto di attribuzione” sollevato dallo stesso Napolitano davanti alla Corte Costituzionale rispetto alle telefonate nelle quali, intercettando Mancino, era stato registrato anche il Capo dello Stato. La Corte ha dato ragione al Presidente. Un commento?
«Da titolare dell’indagine rispetto la decisione, ed eseguo quanto ci viene chiesto, cioè di consegnare al Gip le registrazioni per la loro distruzione. Mi preme sottolineare che la stessa Corte ha riconosciuto la legittimità e la correttezza degli atti della Procura di Palermo, che ha casualmente registrato le conversazioni del Capo dello Stato intercettando un soggetto nei cui confronti venivano fatti degli accertamenti. Ma da semplice e umile giurista, da magistrato e da cittadino non posso non dire che la decisione della Corte mi preoccupa e mi disorienta».
– Perché?
«La motivazione della sentenza comincia così: “Al fine di decidere il conflitto di attribuzione non è sufficiente un’interpretazione testuale di disposizioni costituzionali e ordinarie”. In altre parole i giudici non individuano alcuna norma che avremmo violato o male interpretato, e per giungere all’accoglimento del ricorso del Capo dello Stato ha spostato l’asse della decisione dalle norme a una ricostruzione sistematica del complesso delle prerogative del Presidente della Repubblica che lo collocherebbero al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato – così dice la Corte – e garantirebbero quindi una protezione assoluta, anche rispetto alle telefonate casualmente intercettate. Qual è la perplessità, che peraltro nessuno ha il coraggio di denunciare pubblicamente? Quando si dice che la protezione è assoluta e che l’intercettazione non può nemmeno essere valutata dal Pm, si esclude che la difesa di un imputato eventualmente interessata possa venire a conoscenza della conversazione. Il rischio è di compromettere due principi costituzionali – questi sì esplicitamente affermati dalla Carta – e cioè l’obbligatorietà dell’azione penale e ancor più la pienezza e l’inviolabilità del diritto di difesa. Facciamo un’ipotesi estrema: quella conversazione, anche in futuro, potrebbe riguardare un soggetto che parlando col futuro Capo dello Stato fornisce, ad esempio, una prova dell’innocenza di qualcuno sottoposto a processo. Questa sentenza della Corte impedisce a quell’imputato di poter conoscere e a utilizzare quella telefonata, che magari potrebbe scagionarlo. Oppure quella conversazione potrebbe essere prova di un reato commesso da chi sta parlando col Presidente della Repubblica, o di un terzo a cui si fa riferimento. In tutti i casi la conversazione andrà distrutta senza poterla nemmeno valutare».
– continua –
Luciano Scalettari