11/06/2010
Nelson Mandela posa con la squadra sudafricana in attesa di esordire.
Nemici per la pelle, ma anche per la palla, riflesso anche lei di un
mondo spezzato. Quando l'Apartheid divideva il Sudafrica tutto era
diviso, anche lo sport, odiato e amato in quanto riflesso simbolico
degli uni e degli altri. La palla ovale, del rugby ereditato
dalla dominazione britannica, era bianca. La palla tonda
del calcio, giocato ovunque, anche tra le baracche di Soweto, era nera e
non solo perché non sarebbe stato altrettanto facile mettere insieme un
ovale di stracci.
Certamente c'entra il fatto che il rugby è stato fino al 1994 un
gioco riservato ai bianchi, e la Nazionale fino ad allora un feudo pallidissimo.
Anche la Nazionale di calcio per la verità non ammetteva i neri, ma non
andava a giocarsi niente di importante, cacciata via dalla Fifa per 16
anni, dal 1976 al 1992, per la segregazione razziale in contrasto con i
valori della Federazione internaizionale di calcio, che non sarà un
modello di virtù, ma almeno fin lì è arrivata.
Per tutto questo e per come è finita, Nelson Mandela ormai
novantaduenne e minato nella salute, viene acclamato a furor di
popolo almeno per l'avvio della Cerimonia di apertura del Mondiale.
Il Sudafrica non riesce a concepire questo mondiale senza "Madiba" lì
presente. Perché senza il suo lavoro, compiuto, per tessere il sogno
della nazione arcobaleno, la Coppa del mondo non sarebbe mai sbarcata a
Johannesburg.
Il primo filo, di quel tessuto, ancora così complicato da tenere
insieme, ha preso forma seguendo i rimbalzi di una palla ovale nella
diffidenza generale.
Merito di Mandela che vedeva lontano. Gli Springbocks, le gazzelle,
erano una delle squqdre di rugby più forti al mondo ed erano gli idoli
della minoranza bianca del Paese. Quando Mandela venne eletto
presidente, molti dei suoi sostenitori avrebbero voluto azzerare la
storia degli Springbocks a partire dalla maglia, per tagliare i ponti
con un passato doloroso. Mandela si oppose, era convinto che colpire la
passione sportiva dei suoi avversari politici, sarebbe stato letto come
una vendetta foriera di ulteriori divisioni.
Convinse i suoi ad accettare che gli Springbocks restassero con i
loro simboli, ma contemporaneamente lavorò perché la squadra
diventasse emblema della nuova unità del Sudafrica sotto la bandiera
arcobaleno, adottata nel 1994. In vista del Mondiale di rugby,
assegnato al Sudafrica nel 1995 per salutare il nuovo corso del Paese
finalmente libero dalla segregazione e capace di esprimere il primo
presidente nero della sua storia repubblicana, Mandela si mise a
lavorare sulla squadra da dentro, chiedendo la collaborazione
dell'incredulo capitano afrikaan Francois Pienaar, perché
da catalizzatore d'odio (i bianchi fino ad allora l'avevano idolatrata e
i neri di riflesso detestata) si assumesse, anche consapevolmente, il
compito di rappresentare per intero il nuovo paese. Presero il compito
sul serio, fino a vincere, spinti anche dalla responsabilità, il
campionato mondiale contro gli All Blacks ben più forti e quotati.
Se oggi i Sudafricani desiderano Mandela allo stadio, però, non è
soltanto perché ricordano quel grande lavoro, e perché forse sperano
che il ricorso della storia regali anche ai Bafana Bafana, i ragazzi,
della nazionale gialloverde un risultato di prestigio, ma anche per
la storia di Robben Island, il carcere dei detenuti politici, dove il
diritto di giocare a calcio venne negoziato per mesi a prezzo di dure
punizioni e poi ottenuto dai detenuti, e vissuto come un laboratorio di
democrazia. Dal 2007, la Makana Football Association, la
federazione di calcio che i detenuti fondarono nel carcere, è membro
onorario della Federazione internazionale di calcio.
Mandela si trovava a Robben Island in quegli anni, ma
l'isolamento cui era condannato gli impediva di giocare. L'attuale
presidente Jacob Zuma invece giocò, ma non farà fatica ad
accettare che il calcio d'inizio di questa Coppa del mondo, che
esordisce con Sudafrica-Messico, nello stadio a forma di zucca di
Johannesburg tocchi almeno idealmente, anche se non potrà alzarsi, a
Nelson Mandela, anzi a Madiba. Perché il calcio d'inizio vero l'ha dato
lui tanto tempo fa. Anche se la Nazione arcobaleno dovrà giocare un bel
po' di partite con la storia prima di meritarsi anche lei il Nobel per
pace. Mentre i Bafana Bafana, che sono ragazzi davvero,
figli di un campionato di calcio che ha avuto una serie A solo dal 1996,
avranno il compito complicato di portare avanti oltre alla palla un
sogno tanto più grande di loro.
Elisa Chari