22/01/2013
Il giocatore dell'Etiopia Adane Girma (Reuters).
L’avevano definita il Brasile d’Africa, un po’ di decenni fa. Per via della storia e dei risultati. L’Etiopia del calcio andava per la maggiore in Africa, anzi quasi precorreva i tempi in quel continente, co-fondatore della Caf, la federazione continentale, insieme a Egitto, Sudafrica e Sudan. Sul campo, poi, la nazionale vinceva: una nazionale di pionieri, che parve destinata a successi in serie quando Mengitsu Worku, uno che nella storia di quel calcio ha inscritto il suo nome a caratteri dorati, segnò nei tempi supplementari contro l’Egitto il gol che regalò all’Etiopia la Coppa d’Africa del lontano 1962.
Giocava bene, un calcio alla brasiliana, appunto. In quegli anni ’60 era davvero forte, ancorchè sul trono d’Africa non ci sia più arrivata, fermata in semifinale sia nel 1963 che nel 1968. Comunque, era una potenza, forse la migliore. Ma quella gloria sarebbe durata ancora ben poco. Perché il calcio non è corpo a sé, in grado di isolarsi da quel che avviene nel paese. E quel che è accaduto in Etiopia è scritto nei libri di storia. Un’immagine distrutta, polverizzata. Anni di guerra civile, cruenta, sanguinosa. E la carestie, a mettere in ginocchio un intero paese. E il guardarsi in cagnesco e il farsi la guerra con l’Eritrea, materia di lungo corso per le diplomazie del mondo impegnate a evitare violente contrapposizione.
Un paese martoriato, distrutto, devastato. E il calcio a vivere anni tristi, bui, tormentati. Giocatori in prima pagina, ma per le ragioni sbagliate, spesso in fuga dal paese in cerca di asilo politico, ogni qualvolta impegni internazionali li conducevano oltre confine. E risultati azzerati, da minimo storico per una nazionale un tempo definita il Brasile d’Africa: apparizioni incolori in Coppa d’Africa, talvolta fasi preliminari abbandonate per cause di forza maggiore. L’ultima volta alla fase finale, nel 1982. Ora ci ritorna, oltre trent’anni a un mare di vicissitudini dopo. Per anni, fuori dai giochi internazionali, espulsa dalla Fifa per gli eccessi di intromissioni politiche nella vita della federazione, che faceva e disfaceva, assumendo qualcosa come 15 commissari tecnici in soli 11 anni.
Poi, la lenta ripresa. Una federazione trasparente, convinta di poter recuperare il tempo perduto: campionato ridotto a 14 squadre (da 18), iniezioni di danari da parte di imprenditori locali, progetti per la costruzione di un’accademia per giovani calciatori e uno stadio da 60mila posti ad Addis Abeba, la capitale. Per arrivare in Sudafrica, le Antilopi Walya (dal nome di una specie che è stata a lungo a rischio di estinzione) hanno dovuto compiere un mezzo miracolo: due gol nel secondo tempo contro il Sudan, a ribaltare il 5-3 subìto nella partita d’andata. Un bel vedere, 31 anni dopo l’ultima apparizione. E, soprattutto, un bel modo per dimenticare i guai del passato e guardare al futuro, provando a ricordare quel vecchio prestigioso soprannome, il Brasile d’Africa.
Ivo Romano