06/08/2012
Il discobolo spagnolo Frank Casanas (Reuters).
I Giochi del mondo sono atletica a atletica e atletica e nuoto. Se si vuole anche lotta e sollevamento pesi, discipline misurabili legate a gesti diciamo primari dell’uomo. Senza attrezzi che non siano strettamente necessari per l’esplicazione dei movimenti. Senza intermediazioni che possono essere strumenti, giurie, regolamenti minuziosi. Senza impegni e tattiche di squadra. Con pochi ricorsi alla tecnologia. Nel nuoto a Londra 2012 l’Italia non ha preso neanche una medaglia, come non accadeva dal 1984: altro secolo anzi altro millennio. E l’atletica italiana è arrivata a Londra anemicissima quanto a speranze. I Giochi del mondo ci concernono poco, il nostro respiro olimpico c’è, ma è di aria condizionata.
I Giochi dell’Italia sono giochi di intelligenza, dedizione, applicazione, anche astuzia nell’individuare le “placche” meno popolate del programma olimpico, i posti dove muovere meglio le pedine create, cresciute, istruite, motivate, gratificate con una grande cura, oppure dove lasciare sbrigliare senza troppa concorrenza i talenti che il buon Dio ha fatto piovere nel nostro sport (c’è persino il termine nostrano: stellone). Siamo da tempo bravissimi nell’identificazione dentro lo sport tutto di riserve di caccia speciali.
Si pensi alla scherma: chiede scuola (vedi Jesi), tempo, sacrificio, intelligenza, non è certo uno sport semplice, dal 1896 dei primi Giochi siamo in lizza alla grande, e Londra ha detto di noi cose bellissime, specie sulle nostre ragazze. La scherma non è sport popolare, anche se vede una pratica, una partecipazione abbastanza parcellizzate in tanti paesi: i francesi, che nella scherma hanno spartito con noi per un secolo gli allori, a Londra hanno vinto eccome grandi gare nel nuoto, e non ce la sentiamo di dire che non faremmo il cambio, le nostre medaglie di ferro contro le loro d’acqua.
Jessica Rossi, medaglia d'oro nel tiro al piattello (Reuters).
A Londra abbiamo quasi ceduto una nostra riserva di medaglie, quella del ciclismo che sta cambiando geografia ed agiografia. Per fortuna (del bilancio finale) abbiamo superconfermato quella della scherma e ritrovato in pieno quella del tiro, dove le nostre storie, quelle pacate, ispirate ad una ragionieristica efficienza, degli arcieri, così come quella egualmente serena ma personalissimamente intensa della stupefacente Jessica Rossi, la ragazzina con la carabina che vince e stravince anche per i terremotati della sua terra, le nostre storie dicevamo sono sempre legate ad uno spirito da strapaese, ad una scommessa con gli amici prima ancora che con la vita.
Quando non sono addirittura faccende da compagni di scuola, come la splendida duratura vicenda vittoriosa delle schermitrici che hanno fatto di Jesi la capitale d’Italia, e che a Londra hanno contagiato i nostri maschietti fiorettisti, quasi costretti a fare squadra anche loro ed a vincere, per la patria e per l’emulazione. Lo sport nostro vive di belle microstorie che sanno di famiglia: come in fondo v vie e sopravvive il paese, che fra l’altro non ha ancora una politica sportiva autentica, uno sport vero nella scuola. Un sopravvivere simpatico, non esaltante. Magari simpatico perché non esaltante. E simpatico magari meglio che esaltante.
Tutto questo è molto bello. Però non è solennemente glorioso, storicamente sontuoso nel gran mondo dello sport. Un gran mondo che peraltro ha posti tanto seducenti e scintillanti quanto pericolosi. Si pensi al quel continente che si chiama football, dove facciamo cose importanti che però ci disfano tanti principi morali, ci portano spesso a frequentare una crapula da basso impero. Questi sono i giorni buoni per fare certi calcoli, dentro noi stessi.
Ma intanto guardiamo come tutti a Usain Bolt, parliamo di Usain Bolt. Non è vero che mai nessun atleta fu circondato, spinto ma anche avvolto, condizionato da un’attesa così grande. Carl Lewis arrivò per gli Usa ai Giochi di Los Angeles 1984 con il compito (svolto) addirittura di emulare Jesse Owens che, statunitense e nero come lui, nell’atletica aveva vinto quattro medaglie d’oro a Berlino 1936, Giochi del nazismo, sfidando e ridicolizzando le attese “ariane” di Hitler.
Casomai è vero che mai una così piccola porzione di mondo, quale è la sua Giamaica, ha bloccato tutto il resto del pianeta intorno alle gesta non solo di un suo uomo, ma di tutto un movimento come quello dello sprint, maschile e femminile.
In una Londra poi piena di giamaicani fattisi inglesi anzi britannici per fame, e visitata poche ore prima della finale dei 100 dallo straordinario evento del tennis, dove lo scozzese Murray ha vinto a Wimbledon inteso come court olimpico sullo svizzero Federer che aveva vinto pochi giorni prima a Wimbledon inteso come court massimo del tennis professionistico.
Bolt, allora. Anni 26 il 21 agosto, tre vittorie olimpiche (100, 200 e staffetta) a Pechino 2008, poi Londra: primo in 9”63, “resiste” il suo record mondiale (9”58 nel 2009). E’ alto 1,96, pesa 93 chili. Svolazza come nessuno, lanciato va ai 44 e passa all’ora, copre i 100 metri in appena 41 falcate e mezza, toccando terra con i piedi per due secondi e mezzo in tutto. Ha vinto facile su Yohan Blake, il connazionale nonché amicone che lo aveva battuto due volte quest’anno.
Ha eseguito tutto il suo vasto repertorio mimico. Ma si è anche fatto il segno della croce, prima del via. Senza precedenti il suo bis d’oro olimpico. E’ già ricco, diventerà ricchissimo, straricco. Spesso il campione ti annichilisce: lui sembra intento persino più a essere simpatico che a vincere. Auguri di farcela sempre, specialmente contro le affettuose violenze al quale sottoporremo sempre più il suo personaggio.
Gian Paolo Ormezzano