07/05/2013
Raffaele Cantone (Ansa).
L'ultimo a lanciare il sasso è stato il Pm Roberto Di Martino, titolare dell'indagine sul calcioscommesse a Cremona: ha pronunciato parole pesantissime a proposito di calcio e omertà. Ma non è l'unico. Poco tempo fa il magistrato Raffaele Cantone, ha dedicato alle relazioni pericolose tra calcio e criminalità il libro Football Clan, Perché il calcio è diventato lo sport più amato dalle mafie, scritto a quattro mani con Ginaluca Di Feo, li abbiamo chiesto di rispondere a qualche domanda.
Sappiamo che la criminalità organizzata va dove c’è il denaro e che lo fa tramite il consenso. Quando si va verso il calcio minore prevale l’interesse per il denaro, quello per il consenso o tutte e due?
«Il calcio è un mondo attorno al quale girano molti soldi e quindi c’è spesso un interesse economico che cambia in base al livello a cui si gioca a calcio, ma il pallone serve soprattutto a creare consenso: attraverso le società sportive si raggiungono mondi e luoghi che difficilmente sarebbero raggiungibili diversamente. Spesso la gestione della squadra di calcio crea a presidenti e dirigenti l’alibi per giustificare dei rapporti: contatti ufficiali con le istituzioni e con l’imprenditoria per esempio».
Oggi nel calcio si parla molto di scommesse, e si sa che il tema interessa alla criminalità organizzata, perché le scommesse sono un facile strumento di riciclaggio. Possiamo spiegare all’uomo della strada come funziona?
«Capita di assistere a veri paradossi: se io devo vendere 100 penne a un Comune devo avere la certificazione antimafia, mentre fino a poco tempo fa non era richiesta per gestire un’agenzia di scommesse, malgrado sapessero anche i bambini che il settore era a rischio».
Fin qui è chiaro l’aspetto dell’interesse al guadagno. E il riciclaggio come funziona? «Provo a spiegarlo lanciando una provocazione. Domani un provider potrebbe decidere di perdere grosse cifre su una partita particolare, distribuendole a delle persone. Perché? Semplice. E’ un modo per far rientrare nel circuito legale dei soldi, di provenienza illecita, sulla cui origine nessuno ha chiesto nulla. Ha una doppia possibilità: da un lato con il lavoro ordinario di provider realizza legalmente ampi margini di guadagno, dall’altro, scommettendo, perde un po’, ma “lava” soldi sporchi. C’è una terza possibilità: facendo il provider ha una grande occasione di fornire lavoro alle persone, un altro strumento formidabile di consenso».
L’altro problema riguarda le scommesse legali sulle partite truccate. Come funziona? «Qui ci sono di mezzo le organizzazioni internazionali e le opportunità di guadagnare parecchio con le scommesse live, in corso di partita, su risultati particolari. Emerge molto chiaramente dalle indagini, che queste grandi organizzazioni non giocano sulle partite di cartello ma in serie B, marginalmente, e soprattutto in serie C, prima e seconda divisione, dove spesso i calciatori sono a rischio di diventare preda della criminalità. L’indagine di Bari ha mostrato che calciatori di serie A con gli stipendi che hanno vendevano partite per 7.000 euro, proviamo a immaginare quanto più facile sia “tentare” chi nel calcio minore fatica a trovare un contratto».
Spesso dalle indagini si deduce che uno non poteva non sapere. Quanto per i calciatori, spesso poco colti e male informati, si fatica a distinguere tra ingenuità e malafede? «Sicuramente il livello umano del giocatore medio facilita operazioni di questo tipo ma qui entra in gioco la società sportiva: dalle inchieste di Bari è emerso il ruolo di uno strano faccendiere. Perché una società tollera la presenza poco chiara di uno che, nenache tesserato, ha non si sa a che titolo rapporti così stretti con i calciatori?».
La copertina del libro.
Si direbbe che il mondo del calcio come sistema, anche a livello
federale, faccia poco per spingere le società a rapporti trasparenti.
Lei che impressione ne ha?
«C’è tutto un mondo che fa finta di non vedere cose anche
simboliche: il capitano della Lazio è stato arrestato nell’ambito della
vicenda scommesse e continua a fare il capitano. Esiste ovviamente la
presunzione di innocenza, ma esistono anche ragioni di opportunità. Su
questo argomento non si ha il coraggio di andare a fondo e di adottare
il necessario rigore sia da parte delle società sia da parte della
Federazione. E poi mi suscita inquietudine l’atteggiamento dei tifosi:
un atteggiamento kamikaze. Sono sempre pronti a mettersi dalla parte dei
calciatori. Quando Portanova è rientrato nel Bologna dopo la squalifica
per le scommesse è stato inneggiato dai tifosi come se fosse rientrato a
seguito di un grave infortunio. Doni resta un idolo dell’Atalanta
malgrado sia radiato. Credo che il motivo, ma è una mia idea, sia quello
di non mettere in discussione il business. Lo spettacolo deve
continuare, buttiamo il più possibile la polvere sotto i tappeti».
Sta sfiorando un tema caldo: il rapporto tra società e tifoserie. Un’altra relazione pericolosa?
«Le società mantengono rapporti con il mondo della tifoseria, un po’
per quieto vivere, un po’ per forme di sinergia. C’è la tendenza da
parte delle società di garantire alle tifoserie delle quote di potere
che riguardano i bilgietti, l’organizzazione delle trasferte, perché questo garantisce
la tranquillità negli stadi. Ci sono in alcuni posti persone che per
lavoro fanno il tifoso. Siccome il tifoso non è un lavoro, bisognerebbe
chiedersi come fanno. Spesso, in cambio della tranquillità negli stadi,
si consente di entrare dove si fa allenamento, di mostrare dunque di
avere potere, rapporti diretti con i giocatori, tutte piccole cose che
insieme però possono essere collegate più o meno direttamente a
interessi criminali veri».
Com’è stato accolto un libro denuncia come Football clan?
«Con cauto interesse misto a diffidenza, con questa premessa iniziale:
“Ora però non esageriamo”. E mi permetta di dirlo questa è la premessa
che io sentivo quando andavo da giovanissimo magistrato, subito dopo le
stragi, a parlare di politica e camorra. Dicevano: «Non esageriamo,
stiamo parlando di marginalità». Non so quanto allora si sottovalutassero
i problemi, ma so che dopo sono esplosi». Con la squadra succede la
stessa cosa: sollevi il problema? Vieni accusato di crearlo».
Nel calcio come se lo spiega?
«Da un lato con la passione cieca: nessuno ama sentirsi dire che la sua
fidanzata è una poco di buono, dall’altro con il timore che si metta in
discussione il giocattolo, perché ci sono troppi interessi. Immaginiamo
che il calcio vada in crisi, sarebbe peggio di qualunque Ilva».
Elisa Chiari