11/06/2012
In linea generale la causa principale che porta al lavoro
minorile è la povertà: in Kenya il 75,9% delle famiglie di origine dei bambini
sfruttati vive sotto la soglia di povertà individuata convenzionalmente in 60
dollari al mese: solo un bambino su quattro trattiene per sé quello che
guadagna, gli altri lo danno integralmente ai genitori o a chi si
"occupa" di loro (integralmente nel 26,8% dei casi, in parte nel
47,8%). Tra le concause che costringono i minori a lavorare, la morte o la
separazione dei genitori o il rifiuto a riconoscerli e a prendersene cura.
In questo percorso di costruzione di una maggiore
consapevolezza, i bambini stessi sembrano essere i più pronti: di fronte a domanda
diretta, infatti, non hanno dubbi. Ben più della metà vorrebbe tornare a scuola
a tempo pieno, mentre la restante parte degli intervistati ha confermato la
disponibilità a lavorare purché in servizi prevalentemente domestici, ma non
prima dei dieci anni.
Diego Ottolini, responsabile Cesvi in Kenya dove si trova
attualmente, a corollario della ricerca ci ha scritto una nota per fare
il punto sulle criticità del progetto:
«Innanzitutto i sistemi di protezione dell'infanzia a livello
comunitario si
devono integrare con la volontà politica del governo di mettere in atto
interventi di riforma nel settore della protezione minorile. La ricerca
del
consenso sulle attività svolte deve passare necessariamente dalla
disponibilità
della società civile a collaborare attivamente. Una leva vincente per il
successo
del progetto è la resilienza dei ragazzi, cioè la loro innata capacità
di far
fronte a eventi traumatici con rinnovate energie e speranze. Infine,
bisogna
riuscire a tenere saldi i legami familiari, soprattutto in ambito rurale, là
dove si registrano i dati più sconcertanti sulla vendita di bambini».
Alberto Picci